Francesco Duri, 33 anni, di Cividale, è arrivato a New York portando la sua laurea in architettura e dieci anni di esperienza lavorativa a Udine, ma anche l’eco di una tradizione centenaria che faceva del Friuli, e in particolare del “distretto della sedia” la terra degli artigiani che esportavano mobili in tutto il mondo. L’abbiamo incontrato per un caffé nella Lower East Side, vicino alla sua nuova casa, e siamo stati travolti da un’ondata di entusiasmo e professionalità che ci hanno poi accompagnato in una passeggiata attraverso il nostro ponte preferito.
Raccontaci com’era la tua vita fino all’anno scorso.
“Ho lavorato in sempre a Udine come architetto di interni, prima per alcuni studi e poi per una piccola azienda che realizzava progetti di interior design e window display design, per alcuni grandi brand della moda italiana. Disegnavamo e realizzavamo materialmente gli allestimenti temporanei delle vetrine di marchi come Bottega Veneta ad esempio, non solo in Italia, ma pure a Dubai, Hong Kong, Shanghai, Parigi, Londra, Tokyo. Non cercavo fortuna, mi sentivo già fortunato: la mia regione è bellissima, costellata di vigneti, abbracciata dal mare e dalle montagne. Io ci vivevo bene, avevo un contratto a tempo indeterminato con un lavoro che mi dava molte soddisfazioni e mi ha permesso di girare le più belle città del mondo. Avevo una casa tutta mia dove vivevo con la mia fidanzata, la macchina nuova…”.
E poi cosa è successo? Come è maturata in te l’idea di andartene?
“Il mio sogno era New York. Fin da ragazzini siamo bombardati dalla cultura americana, da canzoni che parlano di New York, di film ambientati qui, da cibo made in USA, da immagini che mostrano una giungla scintillante di palazzi. Poi ci vieni davvero e ti senti come in un film ed lì per me è scattata la scintilla. Come tanti, ci sono tornato diverse volte, con diverse persone e a diverse età, ma ogni volta quel sentimento era lo stesso: quella sensazione di pienezza, di rigenerazione, di eccitante frenesia e di creatività. Era un innamoramento paragonabile a quello che si può provare per una persona, con la consapevolezza che quella persona ha i suoi pregi e difetti”.
Che passi hai fatto in pratica?
“A dicembre 2018 mi licenzio dopo 5 anni di lavoro, con lo stupore del mio capo (e dei miei genitori), vendo la macchina e con i soldi mi trasferisco da solo 3 mesi a New York come turista, con l’obiettivo di conoscere più persone possibili, e con la promessa fatta alla mia fidanzata che un giorno avremmo vissuto insieme nella Grande Mela. Sono venuto qui senza amici, senza parenti che mi potessero ospitare, senza possibili agganci, con lo scopo di crearmi dei contatti che magari avrebbero portato a concrete opportunità lavorative come architetto”.

Come ti sei mosso nella ricerca? Avevi dei nomi in qualche studio, magari italiano?
“No! Ho visitato personalmente quasi un centinaio di studi di architettura, ho lasciato centinaia di curriculum e ho collezionato le business card di mezza New York. Il mio approccio è stato avventuroso: durante quei tre mesi bussavo alla porta dei più o meno noti studi di architettura di New York; mi presentavo e consegnavo il mio curriculum ed il mio portfolio coi miei progetti, sperando e che il mio book finisse nelle mani della persona giusta.
Niente mail, niente appuntamenti, niente formulari online, niente raccomandazioni… Solo io che bussavo alla porta e presentavo me stesso. Questo stupiva i miei interlocutori, quasi li divertiva, li spiazzava perché in questa epoca di social media è raro che qualcuno si presenti di persona. Così facendo ho potuto parlare con molte persone e avere un riscontro immediato forse più genuino di una mail.
Dopo i canonici 90 giorni comunque me ne torno a casa in Friuli un po’ sconsolato, però non demordo e mi rimetto in contatto con tutti gli studi che ho visitato qui a New York, fino a che un giorno un’azienda di Brooklyn, mi risponde facendomi una proposta di lavoro come disegnatore con un contratto da trainee pagato, e un visto di 18 mesi”.
Come ti sei sentito in quel momento?
“Per me è stata l’apoteosi, una delle cose più belle del mondo, una soddisfazione immensa, un senso profondo di consapevolezza di avercela fatta quando tutti ti danno contro, e di essere riuscito a cambiare completamente la vita in meno di un anno”.
Hai dovuto adattarti a un lavoro diverso da quello in cui eccellevi in Italia?
“No, anzi! Qui a New York ho la fortuna di fare lo stesso lavoro, ma per una azienda americana: lavoriamo con aziende della moda (e non solo) come Dior, Hermes, Van Cleef and Arpels, Nike – il nostro campo d’azione quotidiano sono la 5th Avenue e i negozi di Soho e del Meatpacking District”.
Che ne è stato della tua relazione?
“La mia fidanzata è diventata mia moglie! Ci siamo sposati a quest’anno a Las Vegas come nella migliore iconografia cinematografica, e tra poco mi raggiungerà”.
Come ti muovi in giro per la città? Hai delle zone preferite?
“A New York la cosa più bella è camminare, vivere la strada e far parte della miriade di persone che affollano i marciapiedi. Credo che l’essenza di questa città siano le persone e far parte di questo flusso inarrestabile e continuo sia rigenerante e stimolante. Come architetto camminare mi d`a la possibilità di apprezzare questa stratificazione caotica di architetture, di dettagli, ma anche di percepire i diversi odori dei diversi quartieri e delle culture che non si mescolano mai veramente. Ma ho preso subito anche una bicicletta: mi piace Chinatown e percorrere il ponte di Williamsburg in bicicletta è la parte più bella del mio commuting a Bushwick”.
Che differenze ci sono nel tuo campo tra lavorare qui e lì?
“La differenza più grande sta nel fatto che qui viene dato molto più spazio ai giovani. Per esempio tutti i miei colleghi qui sono miei coetanei, o più giovani, e soprattutto ricoprono posizioni di responsabilità all’interno dell’azienda. In Italia sarebbe impensabile che un under 40 abbia un ruolo di prestigio in termini lavorativi; forse qui c’è veramente un concetto di meritocrazia che si basa sulle capacità individuali a prescindere dall’età anagrafica”.

Che importanza ha credere nel proprio sogno?
“Io fantasticavo ad occhi aperti di poter dire a tutti, amici, parenti: “Faccio l’interior designer a New York”. Mi dicevo: “Pensa poi se succede per davvero che vai a vivere a New York”. Non ho pensato mai: “E se fallisco? Cosa faccio dopo, che non ho più un lavoro in Italia?” Volevo far parte di quelli che dicono “Io vivo a New York” e tutti ti rispondono “WOOOW”… e magari non immaginano quanto difficile sia a volte – i newyorkesi non sono esattamente gentili e che gli appartamenti non sono esattamente come quelli di Friends. Una visione romantica, cinematografica, ingenua lo so… però è la stessa che mi fa svegliare ogni mattina col sorriso”.
Che consiglio daresti a chi vuole partire, ma non osa?
“Non mi sento nella posizione di dare consigli, ma direi di non pensare che una volta partito non si torna più indietro, non pensare a un cambio di vita come abbandono definitivo di qualcosa o qualcuno: pensare alla partenza come un gesto di crescita invece che di rottura. Molte volte abbiamo paura del fallimento, allora invece di pensare ad un possibile fallimento a volte è meglio pensare ad un possibile successo… magari alla faccia di quelli che non credono in te. Ma soprattutto cerca di rendere la tua vita degna di essere vissuta, come dicono gli americani ‘make it remarkable’… a New York come a Cividale”.