Quarantasei anni fa arrivai negli Stati Uniti. Avevo 24 anni. Arrivai a New York il 14 luglio del 1972, il giorno della presa della Bastiglia. L’Italia aveva da poco votato: Andreotti aveva formato un governo, il suo secondo, con i socialdemocratici di Tanassi, i liberali di Malagodi e l’appoggio esterno dei repubblicani. Un altro “governicchio” che, traballando, rimase in piedi a malapena un anno. Democristiani e socialisti era già anni che litigavano, dalle elezioni del presidente Saragat: Forlani, allora segretario DC, voleva arginare l’influenza della sinistra. Mancini, segretario del PSI, facendo forza sulle difficoltà della DC nell’aprire al PCI, voleva dire la sua. Erano gli “Anni di piombo” il Paese era alle prese con il terrorismo interno e i brigatisti erano visti come i “figli” della sinistra.

Arrivai che gli Stati Uniti erano invischiati nella guerra in Vietnam. Pochi giorni dopo il mio arrivo ci fu la prima delle Convention: tutte e due si sarebbero tenute a Miami a distanza di un mese l’una dall’altra. I democratici prima e, poche settimane dopo, quelle del GOP. Alle elezioni di novembre Nixon umiliò McGovern aggiudicandosi 49 dei 50 Stati dell’Unione.

Ho sempre fatto il giornalista, prima in Italia, poi negli Stati Uniti e ho sempre seguito la politica italiana (e americana). Quarantasei anni sono tanti. La mia testa è diventata americana, ma il mio cuore è rimasto profondamente ancorato al mio Paese di origine. Sia ben chiaro che ogni anno sono andato in Italia, almeno due o tre volte, mantenendo saldo il rapporto.
L’Italia di oggi non ha nulla a che vedere con quella da me lasciata 46 anni fa. La mia Italia era un Paese, sempre diviso, ma omogeneo nella componente etnica e religiosa, e meno “approssimativo”. Un Paese ricco, anche se si andava verso la fine del “miracolo economico” la crescita del Pil viaggiava sul 6% annuale. Le donne, sempre piu’ numerose, iniziavano a lavorare fuori di casa e lottavano per la loro indipendenza. Fiat, AlfaRomeo, Lancia e Innocenti erano le auto delle masse. Le famiglie erano molto, ma molto piu’ “convenzionali”, con tutti i pregi, i difetti e le ipocrisie delle situazioni. Marco Pannella urlava in favore del divorzio e la DC lo combatteva ostinatamente, iniziando l’eutanasia del partito. Ma era un Paese profondamente europeista. Gli italiani erano orgogliosi di essere stati tra i fondatori della Comunità europea.
Era il Paese del Papa e della cristianità. Era un Paese dell’accettazione che apriva i confini a quanti fuggivano dalle persecuzioni. Era un Paese della mediazione, dove le differenze si risolvevano a cena. Era un Paese dove i politici erano persone colte: De Gasperi, Andreotti, Spadolini, Benedetto Croce, Moro, Dossetti, La Pira, Einaudi, Salvemini e Valiani. E poi Visentini e La Malfa, Reichlin, Labriola, Giustino Fortunato, Enrico Berlinguer, Antonio Segni. L’Italia al Parlamento era rappresentata dal fior fiore degli intellettuali contemporanei. La Pira si sognava San Francesco e telefonava a Mattei per fargli aprire le fabbriche in Toscana. Lo Stato interveniva e l’IRI maldestramente creava aziende e lavoro.

Son passati gli anni. Il malaffare è entrato in politica e i politici per bene hanno sbattuto la porta e se ne sono andati. Per il centro di Gioia Tauro furono spesi oltre mille miliardi di vecchie lire. Ora è quasi inattivo e arrugginito. I nuovi politici non avevano capito che i tempi erano cambiati, che l’Italia era cambiata e che il clientelismo politico si doveva combattere con le idee e la speranza. Invece l’Italia è entrata in una spirale di scandali e di tangenti, e alla fine tutti i maggiori partiti che avevano fondato il Paese, sono stati azzerati. Ma mai mi sarei immaginato di vedere l’Italia in mano alle destre anti europee, anti immigrati e pro Russia.

Non ho capito perché i 5 Stelle, che hanno ottenuto come partito il maggior numero di preferenze, abbiano consegnato il Paese alla Lega e, soprattutto, non ho capito dove la Lega voglia andare. Quali siano gli obiettivi che i padani si prefiggono. Vedere che il neovicepresidente del Consiglio e ministro degli Interni si allei con politici razzisti, xenofobi, come Marine Le Pen e Viktor Orban, mi disturba. Nel suo primo discorso da ministro degli Interni Salvini ha detto di aver parlato con il presidente del Consiglio Conte per tagliare i 5 miliardi di euro in aiuti per gli immigrati. Di creare delle squadre per controllare che i beni sequestrati alla criminalità organizzata non vengano gestiti da disonesti. Di chiedere a Bruxelles quello che ci spetta senza dover andare a chiede l’elemosina. Insomma chiacchiere populiste per uso e consumo interno. Slogan da dare ai sostenitori al PalaLido. Ed ecco che sentire il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker che da Bruxelles dice “Agli italiani servono più lavoro e meno corruzione e devono smettere di incolpare la Ue per tutti i problemi dell’Italia”, mi fa male. E tutto questo mentre si fanno sempre più tempestosi i rapporti tra Stati Uniti ed Europa dopo la guerra commerciale lanciata da Trump. Forse non sarà un caso, ma anche lui ce l’ha con gli immigrati, anche lui ha un lato debole per Putin, anche lui ha voluto fare subito la riforma fiscale. Decisioni quasi a sottileare come gli isolazionisti vedano lo Stato come una proprieta’ privata individuale e non un modern welfare state.