Los Angeles, la West Coast come frontiera, il grunge, i riots, OJ Simpson, la formazione di una coscienza politica. È lo scenario di Terremoto, il romanzo di Chiara Barzini (Mondadori 2017) pubblicato prima negli Stati Uniti con il titolo Things that happened before the earthquake.
Protagonista è Eugenia, una adolescente italiana che arriva a Los Angeles da Roma insieme alla famiglia un po’ freak, alternativa. Mentre il padre insegue il sogno americano di girare un film in America, la vita di Eugenia si snoda tra incontri, primi amori, le prime esperienze con il sesso e la droga. Sullo sfondo, il mito americano che piano piano si gretola, diventa reale, al netto della patina glam a cui certi cliché californiani ci hanno abituato.
Chiara Barzini, scrittrice e sceneggiatrice, nipote di Luigi Barzini, autore del famoso The Italians, come la protagonista del suo romanzo si è trasferita da adolescente a New York. “Con il libro ho cercato di ripercorrere alcuni passaggi della mia vita, ma anche di studiare e approfondire il significato di quel momento così intenso a livello storico”, dice Chiara Barzini in questa intervista. Terremoto è un romanzo di formazione che ha un linguaggio maturo, coinvolgente, intimista, capace di catturare l’attenzione del lettore e di coinvolgerlo emotivamente nel racconto.
E a proposito dell’America di Trump afferma, “di questi tempi poi l’American Dream stenta proprio a decollare, ma negli anni ’90 era più facile farsi incantare da certe promesse. Del mito americano salvo la resilienza. Penso che l’America sia un paese dove chi la dura la vince. A me ha insegnato a ritirarmi su dopo i colpi e mi ha mostrato che non bisogna aver paura”.
Terremoto, il suo primo romanzo, racconta l’arrivo insieme alla sua famiglia a Los Angeles di Eugenia, un’adolescente italiana. Come la protagonista, anche lei si è trasferita a LA negli anni Novanta da Roma. In che modo l’elemento autobiografico ha inciso nel romanzo?

“Ho vissuto a Los Angeles in anni formativi, sia per me che per la città stesso. Penso sempre agli anni 90 come al periodo adolescienziale di Los Angeles: un momento di eruzioni, violenza, rifiuti e smottamenti. Erano anni molto fervidi anche politcamente. C’erano i riots, OJ Simpson, il grunge e per un adolescente appena arrivata dall’Italia era davvero difficile dare un senso a tutti quegli avvenimenti. Con il libro ho cercato di ripercorrere alcuni passaggi della mia vita, ma anche di studiare e approfondire il significato di quel momento così intenso a livello storico. Ho ripreso in mano vecchie edizioni del Los Angeles Times, libri di storia e testi che mi potessero aiutare a capire”.
Piuttosto che un memoir lei però ha scelto di scrivere un romanzo.
“Il memoir sarebbe stato troppo limitante. Avevo tante emozioni da spurgare e tanti ricordi, ma avevo bisogno anche della libertà di poter cambiare la loro sequenza, i dettagli, i passaggi e i personaggi. Il momento in cui mi sono concessa il lusso del romanzo, il libro ha preso una vita diversa. Era la forma più giusta”.
Terremoto è stato definito un romanzo di formazione e la stampa americana ha fatto un riferimento a Elena Ferrante. Come commenta questo accostamento?
“Ne sono lusingata. Siamo in tempi e luoghi diversi del mondo, ma anche Eugenia ha un’amica geniale, più forte e brillante di lei in tutto. Credo che l’accostamento nasca da quella storia d’amicizia”.
In Terremoto, l’evento sismico realmente accaduto e vissuto dalla protagonista, diventa metafora di uno stato emotivo e psicologico che sconvolge la vita della protagonista. In tutto questo, a uscirne a pezzi è l’American Dream.
“È vero, di questi tempi poi l’American Dream stenta proprio a decollare, ma negli anni 90 era più facile farsi incantare da certe promesse. Nel romanzo ho voluto affrontare la perdita dell’innocenza, non solo della protagonista, ma della sua famiglia, delle loro ambizioni e delle loro illusioni. Il sogno americano è già di per sé piuttosto inafferrabile come concetto, quando ci metti sopra Hollywood e il cinema, lo diventa ancora di più”.

I paesaggi che lei descrive sono lontani dal glam e dal luccichio a cui siamo abituati quando si parla di California. Piuttosto ci sono paesaggi aridi e primordiali e Topanga viene paragonata alla Sicilia, altro riferimento geografico presente in Terremoto. Cosa rappresentano le due aree geografiche per lei e per la protagonista?
“Topanga e le Eolie sono due luoghi dove la natura ha un aspetto primordiale, dove ci si sente vicini all’origine delle cose, al modo in cui il mondo è stato immaginato. Sono luoghi dove ci si può astrarre dalla propria identità culturale per considerarne una più antica”.
Gerry Howard, l’editore tra l’altro di David Foster Wallace ha apprezzato il suo romanzo decidendolo di pubblicarlo negli Stati Uniti. Lei ha scritto Terremoto in lingua inglese e lo ha poi tradotto in italiano. Come ha vissuto il passaggio linguistico dall’inglese, sua lingua di adozione e formazione, all’italiano, la sua lingua madre?
“È stato molto emozionante tradurre il libro in italiano, temevo che si sarebbe persa la voce della narratrice, che ci sarebbe stato uno scarto molto forte e invece passo dopo passo ho ritrovato il ritmo. E’ stata quasi una ristesura, una nuova versione del libro. Oggi vedo i due libri come fossero gemelli eterozigoti. Voglio bene ad entrambi per ragioni diverse con le loro sfumature diverse”.
Eugenia, la protagonista, si trova spesso in situazioni al limite e nonostante le varie esperienze dure, incontri strampalati, riesce sempre a salvarsi. E solo alla fine, Eugenia, riesce ad apprezzare l’America e LA. Cosa salva di questo American dream che è in questo testo un mito sfatato?
“Salvo la resilienza. Penso che l’America sia un paese dove chi la dura la vince. A me ha insegnato a ritirarmi su dopo i colpi e mi ha mostrato che non bisogna aver paura. Ogni crisi è un’opportunità”.

Come era l’America negli Anni novanta, gli anni in cui lei ha vissuto, e come la vede oggi dall’Italia?
“L’America degli anni 90, soprattutto la California aveva ancora il sapore di una frontiera. Era il massimo dell’occidente, nel bene e nel male. Ma c’era ancora la sensazione di essere andati in avanscoperta. Oggi l’America, proprio perché continua a rappresentare il massimo dell’occidente, mi sembra in uno stato di declino. Raramente riesco a catturare quella luce di cui mi ero innamorata da adolescente. E di certo le nuove leggi sull’immigrazione e l’attitudine verso il porto d’armi non aiuta”.
Quindi non si trasferirebbe con i suoi figli così come hanno fatto i suoi genitori con lei?
“Se fosse per un periodo delineato sì, lo farei. Non credo che potrei tornare a vivere in America in pianta stabile. Da genitore sono un po’ spaventata dalla cultura contemporanea dell’overparenting e trovo qualcosa di estremamente ansiogeno nel modo in cui vedo crescere i bambini americani, soprattutto a New York”.
Suo nonno, Luigi Barzini, ha raccontato l’Italia agli Americani. Quasi come se fossi una continuità, lei ha voluto raccontare l’America agli Italiani?
“Forse sì. Ero molto affezionata a mio nonno e quando sono andata a vivere negli Stati Uniti cercavo tracce della sua presenza ovunque. Speravo che il suo spirito potesse in qualche modo aiutarmi a decifrare quello strano paese. Quando vivevo a NYC e trovavo le sue tracce nelle panchine o nelle placche alla Columbia University o in alcune biblioteche della città, mi emozionavo sempre. L’ho sempre sentito come una sorta di angelo custode e trovo i suoi testi, soprattutto ‘The Italians’ ancora molto attuali”.