La prima destinazione americana fu la California, nel 2012, quando su suggerimento di quella che sarebbe diventata sua moglie si trasferì a studiare alla UCLA (University of California Los Angeles). Dopodiché, il maestro Gabriele Ciampi si è egregiamente ambientato sul suolo americano, al punto da rimanere a vivere sulla Costa Ovest. Non ama però definirsi un cervello in fuga, ma semmai solo in prestito: infatti, ha saputo amalgamare al meglio la sua formazione accademica italiana con la scuola americana, una tappa importantissima del suo percorso. Negli ultimi anni, la sua musica ha raggiunto traguardi altissimi, rappresentando il nostro Paese in occasioni speciali: nel 2015 è stato il primo musicista italiano a essere invitato da Michelle Obama a esibirsi alla Casa Bianca, mentre il 28 gennaio ha rappresentato – ancora una volta per primo – il nostro Paese alla giuria dei 60esimi Grammy Awards. Ne ha fatta di strada, insomma, ma sempre in mezzo alle note: la sua famiglia infatti possiede una storica fabbrica di pianoforti a Roma, dove è nato nel 1976. L’esperienza dei Grammy lo ha entusiasmato e il sistema della giuria impressionato, al punto da rivelarci qualche suggerimento per il prossimo Festival di Sanremo.

Sei il primo italiano a fare parte della giuria dei Grammy Awards: ci spieghi come funziona il processo che porta alla serata finale di premiazione? Come sei stato scelto?
Ad agosto la National Academy of Recordings Arts & Sciences, ovvero la Recording Academy che organizza i Grammy Awards, mi ha invitato a diventare membro: si è trattato di un primato perché mai un compositore italiano era stato accettato. Dopodiché, sono stato invitato a diventare un Boarding Member, ovvero fare parte a tutti gli effetti della giuria dei premi. Per me, la serata del 28 gennaio al Madison Square Garden di New York è stata la fine di un lungo processo: come gli altri membri della giuria, avevo già votato mesi fa, anche se ho scoperto i vincitori insieme al resto del pubblico. Personalmente, peraltro, sono molto contento perché avevo votato per Bruno Mars, che si è aggiudicato i premi più importanti di miglior canzone e miglior album dell’anno.
Per quali categorie di premi hai votato?
Ho votato per le quattro categorie principali: Record of the Year (la canzone, di cui si premia l’artista ma anche tutto il team che la produce), Album of the Year, Song of the Year e Best New Artist. La selezione dei Grammy passa attraverso tre fasi: l’Academy riceve ogni anno oltre 20mila titoli, vagliati in un primo momento grazie all’aiuto di 350 esperti del settore. In una fase successiva, intervengono i Voting Members, ovvero i membri della giuria come me. Infine, l’ultima fase è quella delle nominations, definite a ottobre e ufficializzate a novembre; ai primi di gennaio, si vota. Il mio è stato un parere tecnico: ho valutato le partiture dal punto di vista melodico e armonico, e per questo ho scelto Bruno Mars. Il suo brano, 24K, è stato composto al pianoforte e contiene pezzi che rimandano a una partitura jazz: l’ho trovato estremamente interessante da un punto di vista armonico e non sono d’accordo con i mugugni che hanno accompagnato questa scelta. I Grammy sono infatti premi che valutano la qualità di un brano, non il successo, la fama o l’immagine dell’artista: per questo, la giuria dei Grammy funziona e ha vinto un signor musicista.
A proposito di giuria: hai dichiarato che ti piacerebbe che anche Sanremo si basasse sullo stesso meccanismo. A mio parere, il Festival non sfonda perché manca di alcuni meccanismi che gli americani – amanti dello show – saprebbero forse fare meglio. È così?
“Io sono un fautore di Sanremo, è un patrimonio del nostro Paese che rende la musica italiana famosa nel mondo. Quello che oggi manca alla musica italiana è l’identità: si ricerca l’arrangiamento di tendenza, snaturando l’identità della musica italiana e contaminandola con tendenze che non le appartengono. Per quanto riguarda Sanremo, una piccola rivoluzione è già cominciata con la scelta di Baglioni, che nella duplice veste di conduttore e direttore artistico sta ridando importanza agli autori. A mio parere, andrebbero rivisti scelta e metodo della giuria eliminando il voto della sala stampa e valorizzando la giuria di qualità, che oggi incide solo per il 20-25%. Non penso che gli americani potrebbero fare meglio perché la loro musica è diversa. Noi italiani abbiamo a disposizione un’enorme qualità musicale, che però non sfruttiamo bene: spesso vince il festival chi ha più seguito come personaggio televisivo che come musicista. Meno male che, anche a Sanremo, rimangono i big: per l’esperienza che hanno maturato rappresentano una fetta importante di storia della musica italiana”.

Tuttavia, la musica è anche spettacolo. Come dovremmo considerare il rapporto tra doti musicali e fattore show quando valutiamo un musicista?
“Secondo me è possibile combinare show e qualità, come accaduto ai Grammy. I Grammy sono un enorme spettacolo, dedicato unicamente ad artisti americani. Sanremo, e in generale l’Italia, dovrebbe valorizzare di più la musica italiana invece che scegliere artisti stranieri: la giuria di qualità dovrebbe essere composta solamente da professionisti del mondo musicale invece che da gente nota più per altri motivi. Io manterrei anche la giuria popolare che con il televoto può esprimere le proprie preferenze: Sanremo è un prodotto nazionalpopolare ed è giusto che la gente voti”.
Come me, anche tu sei un italiano che vive parte del suo tempo negli Stati Uniti. Con un’immagine che mi piace molto, ti sei definito un “cervello in prestito” e non “in fuga” (per esempio in questa precedente intervista alla Voce, ndr). Quale caratteristica degli USA stimola in tanti dei nostri connazionali – me compreso – il concedersi “in prestito” a questo Paese?
“Sono molto orgoglioso di essere italiano, e quello che mi è capitato negli ultimi cinque anni è stato anche un riconoscimento al mio essere italiano: ho suonato alla Casa Bianca, incontrato il Papa, partecipato alla giuria dei Grammy, e più passa il tempo e più mi accorgo di come noi italiani in America veniamo portati in palmo di mano. Personalmente sono venuto negli USA cinque anni fa perché era il Paese che mi offriva le migliori opportunità per il mio lavoro. Rivendico sempre la mia formazione accademica italiana, che considero la migliore al mondo e che ha beneficiato della scuola americana, molto più pratica: ho preso il meglio da entrambe le esperienze, che si sono rafforzate a vicenda. Pensando a un futuro lontano, mi piacerebbe potere tornare in Italia e contribuire, nel mio piccolo, alla musica del nostro Paese: il pubblico italiano è un gradino sopra agli altri perché è in grado di intendere e valutare la musica a 360 gradi, dalla classica della Scala alle canzoni pop commerciali. Non è vero che in Italia non c’è attenzione alla cultura: è vero però che ci vuole più tempo e costanza, ma alla lunga se uno ha talento riesce a emergere. Per questo noi italiani dovrebbero forse smettere di piangerci addosso così tanto”.

Hai suonato alla Casa Bianca invitato da Michelle Obama, primo italiano a esibirsi davanti al Presidente degli Stati Uniti. E se arrivasse un invito ora, dall’attuale inquilino della Casa Bianca?
“Non ci penserei due volte e direi subito sì. Credo che, quando si fa un mestiere pubblico come il mio, le opinioni personali vadano un po’ accantonate: quando andiamo sul palco, siamo dei privilegiati perché possiamo provare a regalare delle emozioni e abbiamo il dovere di condividere la nostra arte con chiunque, a prescindere dal colore della pelle e dell’appartenenza politica. Andrei a suonare per Trump perché starei rappresentando il mio Paese davanti al Presidente degli Stati Uniti, suonando per tutti gli americani e non semplicemente per l’uomo Trump”.
Ma se tu fossi un artista americano?
“L’America è un Paese un po’ strano, dove a volte la protesta sociale si incanala dove non dovrebbe: sui social, ma anche nelle occasioni pubbliche legate all’arte (come nel caso del discorso di Oprah Winfrey ai Golden Globes). Sono scelte, e in quanto tali vanno rispettate e non giudicate: non le condivido però, perché a maggior ragione da americano sentirei come un immenso onore poter suonare davanti al mio presidente, una figura istituzionale che rappresenta tutto il Paese”.