C’era Un italiano in America di Alberto Sordi e Vittorio De Sica, poi c’è Un italiano in America di Beppe Severgnini. Io, più modestamente, non foss’altro per l’accostamento di termini, ho passato qualche giorno da sociologo italiano in America. L’esperienza è stata straordinaria, perché è straordinario essere un sociologo italiano in America: sei costantemente soggetto alla sorpresa, addirittura alla meraviglia, e non solo perché l’America è capace di sorprenderti, ma perché non appena gli altri scoprono che sei italiano succede sempre qualcosa di inaspettato, che vale la pena vivere. “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” cantava Giorgio Gaber. Devo dire che mi sento fortunato quando sono un sociologo fuori dall’Italia per tante ragioni che proverò a spiegare.
Ma andiamo con ordine: perché parlo di questo? Perché sono andato negli Stati Uniti per la XI conferenza dei ricercatori italiani nel mondo che si è svolta a Houston, Texas il 26 e 27 febbraio, organizzata dal Consolato Italiano, dal Comites del Texas in collaborazione con quelli degli Stati dell’Arkansas, Louisiana, Oklahoma, con il contributo della Camera di commercio italiana a Houston, con l’intenzione di riunire i migliori ricercatori italiani nelle scienze, nelle tecnologie, nella medicina e nel campo umanistico. L’incontro ha riunito ricercatori nei settori diversi, a partire dagli ingegneri aerospaziali (visto la presenza della NASA) di medici ed esperti nel settore chimico/farmaceutico (visto l’importanza riconosciuta al Medical Center) con altri provenienti dalle scienze sociali, dal marketing, dalle arti, dalla geografia e dalla letteratura. L’importanza del luogo è stata confermata dalla recente visita del Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella negli Stati Uniti, che gli ha reso visita, oltre a New York e Washington, e che, nel messaggio inviato per salutare i partecipanti alla conferenza, ha mostrato tutto il suo apprezzamento per l’iniziativa, ricordando che proprio a Houston ha “avuto modo di incontrare tanti nostri connazionali che si sono affermati nella comunità scientifica americana e le cui attività hanno ricadute preziose anche per la ricerca e le università italiane. Proprio la circolarità e le esperienze dei saperi è tra le ragioni fondative della vostra esperienza e per questo merita di essere valorizzata”.
Il convegno è stato ben organizzato, molti gli interventi di grande interesse e qualità. Quasi settanta le persone partecipanti che hanno raccontato i loro progetti di ricerca, le iniziative intraprese, da molte parti degli Stati Uniti, dall’Italia e altri paesi, alla presenza continua dell’on. Caruso, della Commissione parlamentare per la Difesa; la console Elena Sgarbi, i membri del Comites e la punta di diamante italiana alla NASA: il celebre astronauta Paolo Nespoli, autore anche di diversi libri di successo, fonte di ispirazione per Oriana Fallaci, nonché protagonista con Topolino nella storia Topolino, Paolo Nexp e l’orbita del domani. L’accoglienza del comitato organizzatore, dal console Elena Sgarbi, al Cons. CGIE Vincenzo Arcobelli, al Presidente del Comites Walter della Nebbia, ad altri come Andrea Duchini, Luca Cicalese, Francesco Fusco, Francesca D’A. Behr, e mi scuso se salterò qualcuno, è stata meravigliosa: gentilezza, attenzione, scrupolosità. Mi hanno detto che è l’accoglienza texana, del Sud. Io devo dire che mi è parsa l’accoglienza della “meglio Italia”. Ma come mai devo essere sempre lontano per ricordarmelo? In ogni caso l’esperienza non si è limitata alla conferenza, al lavoro stretto, ma a tutto quel contorno che aguzza l’occhio del sociologo. Particolari che raccontano i giochi di specchi tra Stati Uniti e Italia.
I film italiani proposti dalle compagnie aeree sono già un biglietto da visita. La United Airlines e Lufthansa propongono Se Dio vuole. C’è bisogno di aggiungere qualcosa?
Arrivo all’aeroporto George Bush International di Houston, una città che ormai ha un sottotitolo, come i libri: “Abbiamo un problema”. In ogni caso, quanto suona strano per un italiano un aeroporto intitolato a uno che è ancora vivo. In Italia credo che molti rifiuterebbero. La scaramanzia prevarrebbe. Da morto però sì: un bell’aeroporto, una strada, un ponte o quant’altro sarebbe lusinghiero. Consegno la custom declaration alla dogana dell’aeroporto. Una ragazza divertita mi squadra e mi chiede in perfetto italiano se ho nella valigia: “Prosciutto? Formaggio?”. “No”, rispondo sorpreso. Ok, penso tra me e me, appena arrivato e subito stigmatizzato come l’italiano che pensa a portarsi il cibo da casa. Tutto si muove in questo meccanismo in cui le mie idee di italiano si scontrano e incontrano in un mix sorprendente con l’interlocutore che ho difronte. C’è la receptionist che mi dice quant’è bella l’Italia, ma mi parla in spagnolo scambiandolo per italiano, dicendomi che vorrebbe imparare il portoghese; c’è la commessa dello shopping mall La Galleria che alla mia seconda parola capisce che vengo dall’Italia, s’illumina in un grande sorriso e mi racconta dei suoi genitori emigrati dalla Sicilia, del suo periodo romano, e nel frattempo mi propone una speciale crema per ripulire la pelle a un prezzo ridottissimo “because you’re italian”. Chiedo se c’è Gucci, mi mandano all’Italian corner: Gucci, Bottega Veneta e Fendi, senza sapere che nessuna delle tre è più italiana. Un altro mi ferma per darmi qualche brochures che rifiuto cortesemente e mi saluta con “Ciao, bello”. Dall’altra parte un negozio super colorato vende saponi, creme al motto Ciao Italy, stampato su foto ritoccatissime della costiera amalfitana. È tutta un’effervescenza: c’è sempre qualcosa di inaspettato. Un italiano sembra non passare inosservato, se l’altro lo sa, succede sempre qualcosa. E io mi diverto, adoperandomi con atteggiamento pirroniano, dettato dalla sospensione del giudizio piuttosto che dal pregiudizio, mi lascio trasportare da quello che mi accade intorno.
Cammino per le strade, a quanto pare sono sempre il solo. Non incontro quasi mai nessuno, se non chi scende e monta dalle macchine che scorrono incessantemente sulle strade in maniera ordinata. Mi raccontano che quando un semaforo non funziona passano due alla volta: quelle che si trovano sulla stessa strada una difronte all’altra. Potreste mai immaginarlo in Italia? Nella camera d’albergo generalmente si trovano disegni, foto o quadri che rimandano al luogo nel quale ci si trova. Se una volta a Milano mi sono trovato la parete completamente riempita con carta da parati raffigurante la Scala, ad Houston trovo stivali texani ben piantati a terra e Shuttle in orbita.
Chiedo quanto ci voglia dal mio albergo a raggiungere il centro. Lo chiedo con la curiosità di chi sa che molte città americane non hanno un vero e proprio centro come le europee. La curiosità sta nel vedere che tipo di risposta verrà data. A Houston se proprio si vuole parlare di centro si fa riferimento alla zona finanziaria e a quella dei teatri, ma poi, quella che è la quarta città degli Stati Uniti si sviluppa in maniera funzionale, ma non necessariamente da un punto alla periferia. Il receptionist dell’albergo mi dice che dipende da dove voglio andare. In altre parole quello che conta è ciò che voglio fare o dove andare poi non è importante se sia centro o altra zona. Insomma quant’è bello fare il sociologo italiano fuori dall’Italia.