Poche settimane fa in occasione della riunione che si è tenuta all’Ambasciata italiana a Washington per l’elezione dei due rappresentanti in territorio statunitense del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’estero) avevo postato un mini sondaggio su Facebook per chiedere agli italiani residenti all’estero o in Italia che mi stavano leggendo se avessero mai sentito parlare di questo organo elettivo. La risposta è stata un corale no. Nessuno, al di fuori di due o tre ex funzionari consolari, l’aveva mai sentito nominare. La stessa cosa era successa quando avevo posto un simile quesito pochi mesi prima riguardo al Comites (Comitato italiani residenti all’estero).
Questi due mini sondaggi, condotti su un campione limitato ma non trascurabile di persone interpellate, hanno dato ahimé un esito che poco si discosta dalla realtà dei fatti e che dimostra quanto il Comites come organo di rappresentanza sia praticamente sconosciuto in Italia ed essenzialmente ignorato qui negli Stati Uniti. Eppure i Comites, qui come in tutto il mondo, ricevono fondi dall’Italia e i loro rappresentanti vengono eletti dagli italiani residenti all’estero.
Che cos’è dunque il Comites e di cosa si occupa? Idealmente è un organo di rappresentanza offerta agli italiani residenti all’estero nei rapporti con le autorità consolari e nell’organizzazione di attività mirate ad “individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della propria comunità di riferimento,” come recita l’articolo 2 della legge 286/2003. In pratica, viene gestito come un club privato di pochi intimi che lo usano impunemente per fini personali.
Non si può certo fare di tutta l’erba un fascio, alcuni Comites si distinguono per il loro maggiore dinamismo, e alcuni consiglieri per i loro validi contributi, e basterà fare una veloce ricerca su internet per capire quali e quanti sono quelli più attivi qui negli Stati Uniti come nel resto del mondo. Pochi, direi, e purtroppo, il Comites di Filadelfia, la città in cui io vivo dal 1992, non è fra questi. Lo dico con cognizione di causa, perché stanca di non ricevere mai alcuna notifica o informazione sulle attività del Comites di Filadelfia ho deciso di candidarmi alle elezioni dello scorso aprile con la lista Innovitalia, che riuniva per lo più ricercatori e docenti universitari attorno ad un programma di rinnovamento del Comites. Eletta, e in minoranza, ho cominciato a rendermi subito conto di quanto radicate fossero certe brutte abitudini (clientelismo, sperpero di denaro pubblico, e quant’altro), esportate sì all’estero, ma sempre fiorenti in tutta la loro sconcezza di italica memoria.
Finora si sono svolte tre riunioni, da cui non è uscita alcuna proposta concreta da offrire alla comunità della nostra circoscrizione consolare se non quella di confermare una sede inutile che costerà migliaia di dollari allo stato italiano. Abbiamo appena presentato una mozione di sfiducia verso il presidente Salvatore Ferrigno, sottoscritta da sette dei dodici membri eletti, chiedendo di mettere al voto l’elezione di Carmine Berardi, un giovane e dinamico membro del comitato, come nuovo presidente. Aspettiamo ora, con trepidazione, di poterci nuovamente riunire per espletare il diritto al voto che, purtroppo, per ora non ci viene concesso.
Ma senza entrare troppo nel merito di beghe locali, credo sia importante segnalare queste situazioni ed iniziare una seria riflessione tra noi italiani residenti all’estero sul ruolo che il Comites può e potrà svolgere in futuro. C’è chi dice che i Comites dovrebbero essere aboliti, perché così come sono, appaiono inutili. Forse, anche se io preferisco pensare che i Comites potrebbero funzionare molto meglio se non fossero lasciati in mano ai ‘soliti noti’ e ci fosse un maggiore coinvolgimento da parte degli italiani che vivono qui, inclusi coloro che sono arrivati in tempi più recenti. In tal senso, i Comites potrebbero assicurare una maggiore trasparenza e svolgere un ruolo unico come piattaforma di mediazione e dialogo tra le diverse realtà dell’ italianità presenti sul territorio, tra quei cittadini, ovvero, che arrivati negli Stati Uniti in tempi diversi (dagli anni ’60 ad oggi) esprimono istanze diverse ma non necessariamente incompatibili.
Alla luce delle nuove ondate migratorie e di quella che si può immaginare essere una presenza italiana in continua crescita, il diritto ad avere una rappresentanza in loco non dovrebbe essere né scontato né sottovalutato.
* Gabriella Romani è di Roma e vive a Filadelfia dal 1992. E’ membro eletto del Comites di Filadelfia e insegna alla Seton Hall University dove è anche direttrice dell’Alberto Italian Studies Institute