Caro Direttore,
Gli emigrati sono persone contraddittorie. Metà della nostra anima è radicata sulla sponda dalla quale siamo salpati, l’altra metà sulla sponda alla quale siamo approdati. Doversi continuamente destreggiare fra mondi che a volte si rivelano diversissimi è spesso scomodo e confuso. Il visitatore deve cimentarsi con differenze culturali per la durata della sua permanenza; l’emigrato deve farlo per tutta una vita.
Per dirne una, dopo oltre trent’anni in America non ho ancora idea di come venga misurato il “personal space”; anzi prima di venire in America non sapevo neanche cosa fosse il “personal space”. Per noi italiani abituati ad esternare i sentimenti con effusione, prendere involontariamente per il verso sbagliato i molto più riservati anglosassoni rimane uno dei tanti rischi del mestiere. Non avvicinarsi troppo, non parlare troppo, non parlare troppo rumorosamente – e nessuno di noi sa esattamente cosa sia “troppo”.
Inevitabilmente, la cultura del paese adottivo modifica fin dall’inizio quella del paese natale. Fra le innumerevoli cose da apprendere c’è l’arte di individuare quali aspetti della nostra cultura sono rimasti affidabili e quali no. Si sa ad esempio per istinto che si può gesticolare a volontà con i conterranei, ma s’impara per tentativi che gesticolare a volontà con altri non è necessariamente un bene; anzi, forse quest’abitudine istintiva non farebbe che rafforzare lo stereotipo “Gli italiani parlano con le mani”. A complicare le cose, la cultura varia a seconda del paese in cui si emigra. Con un peculiare genere di campanilismo internazionale, un emigrato potrà dire: “Grazie a Dio sono emigrato in America e non in Australia” e un altro: “Grazie a Dio sono emigrato in Australia e non in America".
Anche i figli degli emigrati si trovano presi in mezzo a società contrapposte. Se è vero che tutti i figli si ribellano ai genitori, qui viene ad aggiungersi la ribellione culturale. È noto che molti dei figli degli emigrati si vergognano, chi più chi meno, dei propri genitori. “Devi scusare la mia mamma, è italiana e le mamme italiane sono ficcanaso.” “Papà, ma quando imparerai a parlare l’inglese come si deve?” Il divario culturale si chiude solo alla terza generazione. È la terza generazione che riconcilia i due mondi, e con la riconciliazione nasce anche l’orgoglio incondizionato delle proprie radici italiane.
Non mi è facile vivere divisa a metà, osservare l’America con gli occhi dell’Italia e l’Italia con gli occhi dell’America. Per quanto io ami il paese in cui sono nata, la mia attenzione è ora rivolta in maggior parte verso il paese in cui vivo. Non seguo da vicino la scena italiana ma seguo da vicino la scena americana, poiché è quest’ultima che maggiormente influenza come viviamo io e la mia famiglia. Mi sento spesso dire: “Ma scusa, tu da che parte stai?” Non ho una risposta precisa. Penso che gli emigrati non stanno “dalla parte” delle cose, e che non stare “dalla parte” delle cose può essere un vantaggio. Penso che da una duplice prospettiva si può vedere con maggiore obiettività sia il paese natale che il paese adottivo; ma il prezzo che molti di noi pagano è un insanabile senso di sradicamento.
Non sono più del tutto di casa in Italia, e non sarò mai del tutto di casa in America. La casa appartiene solo a chi non l’ha mai lasciata. Non si può tornare al passato, si può solo fare virtù del presente. È una condizione umana universale, ma per noi lo è una volta di più.
Flavia Idà, San Francisco