Ripartiamo dal Missouri per la tappa di trasferimento più lunga del nostro viaggio: tra due giorni ci attende Denver, la città più italiana del Wild West. Fin dalla metà dell’Ottocento, gli italiani si sono spinti fino al Colorado che, tra l’altro, ha dato i natali a uno dei più grandi letterati di origine italo americana: John Fante. Sono stati la sua raccolta di racconti Dago Red e una fotografia di Lewis Hine pubblicata nel mio libro Explorers Emigrants Citizens a farci inserire anche Denver nell'Italian American Country Tour.

Dago Red, raccolta di racconti brevi pubblicata da Fante nel 1940. Nel 1985 venne ripubblicata (con alcuni racconti aggiuntivi) col titolo The Wine of Youth, segno che i tempi in cui si potevano esprimere in pubblico insulti a sfondo etnico erano finiti
Arrivati a Kansas City, ci rendiamo conto di essere arrivati nelle grandi pianure quando notiamo che il GPS indica un percorso di 560 miglia prima di raggiungere la svolta successiva. Dopo un giorno di viaggio nella terra di Dorothy, la protagonista de The Wizard of Oz, ci fermiamo al tramonto nel Midland Hotel di Wilson, Kansas.
L’edificio dell’hotel è antico – per queste zone del Kansas, una costruzione del 1899 si può tranquillamente definire "antica" – e costruito in solidi mattoni in pietra. Salendo le scale abbiamo la sorpresa di scoprire che è stato il set di alcune scene di Paper Moon, il film di Peter Bogdanovich che raccontava le peripezie di un venditore ambulante di bibbie e della sua piccola aiutante (interpretati da Ryan e Tatum O’ Neal, padre e figlia nella vita reale oltre che nella finzione) durante la Grande Depressione.

A Midland, Kansas i binari corrono a perdita d’occhio verso ovest
L’assoluto silenzio della nostra notte a Wilson viene interrotto solo dal passaggio di lunghi treni merci che, come in tutti gli USA, hanno l’abitudine di suonare la sirena durante l’attraversamento delle città.
Al mattino la giornata è splendida e ci concediamo una passeggiata per esplorare la Main Street dove manca solo un tumbleweed, il classico cespuglio rotolante, per sentirsi nel set di un altro film di Bogdanovich, L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show).
I binari della ferrovia corrono a pochi metri dalla facciata del Midland Hotel e la receptionist dell’hotel ci racconta che fu battezzato così proprio perché si trova esattamente a metà strada sulla linea della Union Pacific tra Kansas City e Denver. Forse è un caso, ma la gran parte degli italiani che arrivavano nel West – fino a Denver od oltre sulla costa dell’Oceano Pacifico – lo facevano proprio a bordo dei vagoni di terza classe che correvano su questi binari posati pochi anni prima da lavoratori di tutte le nazioni, Italia compresa.
A Denver ci guida Alisa Zahller, italiana di quinta generazione e curatrice di History Colorado, istituzione che si occupa di conservare e divulgare la memoria delle comunità che hanno contribuito allo sviluppo di questo Stato.

I fratelli Ezio e Anthony Lombardi intervistati all’interno del loro laboratorio di tappezzeria
La maggior parte delle interviste le realizziamo nella vecchia Little Italy di Denver, che oggi qualcuno chiama Little Mexico riferendosi al nuovo popolamento in atto. Le strade prendono il nome delle tribù dei nativi americani: Shoshone, Umitilla e Navajo dove si trova la Our Lady of Mt. Carmel Church, da sempre il cuore della comunità. Tra i viali alberati e le case a un solo piano ci sono ancora tracce del primo insediamento italiano, risalente alla fine dell'Ottocento: la sede della Potenza Lodge, fondata dai primi emigrati dalla Basilicata, il vicino ristorante Gaetano's, il laboratorio di statuaria Amato of Denver e la tappezzeria Lombardi. Proprio qui incontriamo i fratelli Anthony ed Ezio Lombardi, arrivati negli States dalla provincia di Isernia negli anni Sessanta, che oltre a un tanto atteso espresso ci offrono un animato racconto a più voci sulla loro personale “Italian American experience”. La potremmo sintetizzare nella limpida formula di Anthony: “You have the opportunities. All you have to do is work, you get paid, you can buy” (Hai le opportunità: tutto ciò che devi fare è lavorare. Vieni pagato e puoi comprare).
Anche Jess Luigi Gerardi è un "four quarters italian", quattro quarti italiano, come è abitudine indicare in una terra dove tutti hanno antenati altrove. Il padre era di Viggiano, in provincia di Potenza, e la madre di Grimaldi, in Calabria. Jess è cresciuto a Trinidad, Colorado, dove il nonno si era trasferito per lavorare nelle miniere di carbone, ed ha dedicato la sua vita alla musica. Ci racconta che una zia che intuì il suo talento lo avviò fin da piccolo al pianoforte, ma la sua vera carriera iniziò con un vecchio trombone lasciato dallo zio morto di polmonite prima della sua nascita (come spiega lui stesso nel video qui sotto, in inglese).
Dopo aver diretto per 32 anni la banda scolastica e per 30 quella della squadra di football dei Denver Broncos, oltre a suonare in orchestre e gruppi professionistici, oggi Jess è in pensione. Ha ancora la sua banda, l’unica che fa ancora canzoni tradizionali italiane e napoletane in mezzo a tante che offrono invece un repertorio italoamericano ma, come ci racconta “non suoniamo più molto, perché una banda di diciotto elementi è costosa e la gente non vuol pagare”. Ci confessa di essersi interessato tardi nella sua carriera alla musica italiana, perché in gioventù “non ho mai realizzato di essere italiano, sono cresciuto insieme ad altri europei e facevamo tutto insieme, eravamo un conglomerato di persone”. Ricorda con affetto Mr. Capucci, il direttore della banda delle miniere di Trinidad che lo chiamò da ragazzino fra i fiati: suonavano tutti vecchi strumenti italiani a valvole e non avevano mai visto un trombone a tiro come il suo. Capucci componeva musiche originali: Jess ha ancora davanti agli occhi i suoi spartiti con le note “scritte con il gambo all’indietro”, all’italiana, che purtroppo oggi nessuno può risuonare perché perduti in un incendio.
Alisa ci ha preparato un serrato programma di oltre venti interviste da realizzare in tre giorni. Solo al secondo giorno, riusciamo finalmente a concederci una chiacchierata con lei. Ci racconta della storia della sua famiglia, arrivata dall’Italia alla fine dell’Ottocento per stabilirsi a Como, un minuscolo villaggio minerario delle Montagne Rocciose. Ci espone soprattutto la ricerca svolta per History Colorado a cui ha lavorato per oltre sei anni con l'obiettivo di incontrare tutti gli italiani le cui vite erano legate alla vivace Little Italy di Denver. Grazie al suo lavoro e alla collaborazione di un team di cinquanta volontari, nel 2008 Alisa ha pubblicato Italy in Colorado e curato la mostra The Italians of Denver. L’eredità più concreta e importante della sua ricerca sono le testimonianze, i racconti, le fotografie che oggi costituiscono una collezione di oltre 6.000 immagini, di centinaia di interviste, manufatti, documenti conservati negli archivi di History Colorado e che rappresentano una delle più imponenti ricerche sul campo mai realizzate sulla storia degli italo americani. Come per molti ricercatori, anche per Alisa tutto è iniziato da un’esigenza personale, quella di ricordare la nonna che crescendo le aveva permesso di restare legata alle sue origini: “Penso che sarebbe stupita da tutto quello che è successo, che una sua poesia sia finita nel libro e che la sua vita sia stata presa in considerazione, perché credo che a volte abbia considerato la sua una vita insignificante. È stata moglie e madre, è arrivata al massimo a frequentare la quarta elementare, non guidava, non viaggiava, ha passato gran parte della sua vita nella stessa casa… anche se per tanti aspetti è stata una vita molto semplice, allo stesso tempo è stata anche molto ricca e complessa”.

L’ultima immagine di Denver, ripresa nella Spero Winery di June e Clyde
L’ultima intervista della tre giorni di Denver è quella a June e Clyde, proprietari della Spero Winery. Anche qui la cultura del vino – quella del “dago red” raccontato da Fante – ha seguito i nostri emigranti e i coniugi Spero, quando è stato il momento di decidere cosa fare negli anni della pensione, non hanno avuto nessun dubbio e hanno trasformato la loro piccola cantina casalinga in una delle più grandi del Colorado.
Come d’abitudine, al momento di ripartire notiamo che lo spazio nel bagagliaio del nostro van, anziché aumentare per le copie di Explorers Emigrants Citizens che vendiamo durante le presentazioni, diminuisce per tutti i regali – cibo, vino e soprattutto tanti altri libri – che tutti desiderano lasciarci; un bagaglio che si va a sommare a quello delle esperienze, dei ricordi e dei valori che ciascuno di loro ci sta trasmettendo.
La lezione che riassume la nostra tre giorni di Denver è la gioia di dedicarsi al lavoro come strumento per realizzare i propri sogni: che siano quelli di calcare le scene con il proprio vecchio trombone, di impegnare gli anni della pensione riscoprendo il vino dei propri antenati, di ottenere le soddisfazioni economiche che in Italia erano precluse a chi nasceva povero, o di salvaguardare la memoria della comunità italiana di Denver, impariamo che qui, ai piedi delle Montagne Rocciose, il duro lavoro paga.
Questa è la nona puntata dell'Italian American Country, un tour di 6.000 miglia e 15 tappe attraverso gli USA alla scoperta degli italoamericani che vivono nelle piccole comunità. Da questo viaggio nasceranno un libro fotografico e un documentario che vedranno la luce nella primavera/estate del 2015.
Il progetto è nato a seguito della pubblicazione del libro Explorers Emigrants Citizens edito daAnniversary Books e disponibile su Amazon.