Quarant’anni e non sentirli. Gli studi italo-americani al Queens college festeggiano il traguardo di quattro decenni, e non sono mai stati più in forma. Queste le conclusioni dell’incontro organizzato mercoledì 26 marzo, per celebrare l’anniversario della data in cui Richard Gambino istituì il primo corso in studi italo-americani nell’università del Queens.
Nel 2013, nella stessa università, Anthony Tamburri, direttore del Calandra Institute e Fred Gardaphe, professore di Inglese e di studi Italo-americani, hanno creato la prima serie di corsi di laurea di secondo livello. Oggi il campo di studi si è allargato e tanti sono gli aspetti della cultura toccati dagli studi italo-americani. Nel corso di questi quaranta anni la stessa definizione di italo-americano è andata cambiando. Si tratta di un’identità in evoluzione, le cui trasformazioni non possono che riflettersi anche negli studi legati a questa cultura. E l’allargamento è anche geografico, tanto che forse dovremmo considerare la possibilità di includere anche il Sud America, ha suggerito Fred Gardaphe in chiusura del suo intervento all’incontro di mercoledì pomeriggio.
Di certo, nonostante una storiografia che spesso racconta l’emigrazione sotto una sola luce, non esiste un italo-americano standard, non c’è un’identità unica e unitaria.

Fred Gardaphe durante il suo intervento al convegno per i 40 anni degli studi italo-americani al Queens College
“Gli studi italo-americani si sono evoluti molto in questi 40 anni – ha detto Fred Gardaphe a La VOCE a conclusione dell’incontro – Sono partiti dalla storia e le scienze sociali, per allargarsi oggi a moltissimi campi. Come per esempio la salute mentale, ambito in cui gli studi italo-americani si interrogano sulle specificità della personalità italo-americana e le dinamiche familiari. Racconto spesso un episodio: mia sorella quando andava a scuola andò a parlare con un consulente scolastico che, dopo averla ascoltata, le disse ‘Oh, mio dio, la tua vita sembra uscita da Il padrino‘. Ovviamente mia sorella non tornò più da quel consulente, ma quello era il livello di conoscenza della cultura italo-americana allora. Si usava un film come criterio di valutazione di dinamiche reali”.
Parole che chiariscono, semmai ce ne fosse bisogno, perché è importante che esista un settore di studi che si occupi di queste specifiche identità e cultura. E c’è ancora molto da fare, tanto da esplorare.
“Il futuro degli studi italo-americani è radioso – ha ripreso Gardaphe – Si stanno sviluppando programmi in tutta la nazione, da Chicago fino al Wisconsin, impensabile fino a qualche anno fa. Nel momento in cui lasciamo la Little Italy geografica, l’andremo sempre più a rimpiazzare con una Little Italy estetica. Che si trova nelle istituzioni culturali”.

Peter Vellon
E che il futuro sia splendente lo dimostra anche la presenza all’incontro di mercoledì di tanti volti giovani. Tra questi Peter Vellon, docente di storia al Queens College. “Negli ultimi 10-15 anni – ci ha detto Vellon – c’è stato un crescente interesse intorno agli studi italiani e italo-americani e sono sempre di più gli studenti che avviano progetti di ricerca in questo ambito. È un campo di studi molto vivace che negliultimi anni è diventato ancora più interesasnte inserendosi nel dibattito nazionale su transnazionalismo, definizione di razza e whiteness”.
Non si tratta di un ambito di interesse esclusivo di una ristretta comunità etnica. La società americana in generale può trarre beneficio da un’approfondita conoscenza della cultura e della storia degli italo-americani. “L’esperienza dell’immigrazione italiana – ha proseguito Peter Vellon – è un valido filtro attraverso cui guardare l’esperienza etnica del Ventesimo secolo. L’esperienza di gruppi di persone arrivati da varie zone d’Italia e identificati come diversi, fatti oggetto di restrizioni tanto che cercarono di bloccarne l’arrivo, e che poi invece finirono per assimilarsi completamente nella cultura americana è paradigmatica per altri gruppi etnici. Ovviamente ci sono delle differenze e ogni cultura ha le sue specificità, ma c’è un che di universale nell’esperienza dell’immigrazione. Insegnando nel Queens, poi, ci sono alte probabilità che tanti dei ragazzi che seguono i miei corsi, di cui solo un 40 per cento ha origini italiane, siano loro stessi immigrati o che almeno uno dei due genitori lo sia. Quindi credo che questi temi possano essere vicini all’esperienza personale di molti”.
E allora forse anche in un’Italia che solo di recente ha conosciuto l’immigrazione ma che ha una lunga storia, spesso trascurata, di emigrazione, ci sarebbe spazio e ragione per gli studi italo-americani.