Caro direttore,
ho letto l’articolo pubblicato su La VOCE sull’incontro con Francesca La Marca: come sempre molto puntuale e ben scritto! Vorrei raccontare anche io quell'incontro, ma da un punto di vista un po’ più personale.
Quando, qualche giorno fa, abbiamo ricevuto presso la nostra sede la visita della nostra rappresentante in parlamento, l'onorevole Francesca La Marca, probabilmente non ci siamo accorti che non stavamo semplicemente ospitando questa gentile e volenterosa giovane deputata. Con lei era entrato nelle nostre stanze un nuovo modo di intendere la politica, più immediato e meno incartapecorito nei noiosi schemi novecenteschi. Verrebbe quasi da definirla "il nuovo che avanza", per riprendere le parole di un altro politico con il quale il PD si è sempre trovato a suo perfetto agio. In altri termini, abbiamo ospitato il nuovo volto del partito.
Elegante, pacata, la deputata parla con calma e misura ogni parola: tradisce un marcato accento inglese, stranamente (per una deputata italiana) sua lingua madre, arricchito ogni tanto da qualche leggera inflessione meridionale che contribuisce a rendere più personale il suo discorso. Sfoggia sorrisi di ordinanza e il suo tono di voce è a volte fin troppo rilassato, quasi meccanico: il pensiero corre inevitabilmente alla bravissima Claudia Gerini mentre impersonava Angela Angela, l'avvenente annunciatrice di Ri-Educational Channel che aveva sostituito per poche puntate la ben più efficace ma meno disciplinata Vulvia. I toni e la parlata appaiono paurosamente molto somiglianti, la speranza è che il senso del discorso sia un po' meno surreale delle battute ideate dal genio di Guzzanti.
Nel suo discorso, l'onorevole ci sollazza con la sua visione di ciò che è stato fatto nel primo anno di questa tanto bistrattata legislatura, della quale cade l'anniversario proprio in questi giorni. L'elezione di due governi, la riconferma del nostro "grande" presidente Napolitano (che Dio la perdoni), la recente ascesa di Renzi a premier, la nuova legge elettorale. Pone l'accento sull'inarrestabile ventata di ottimismo, che non esita a definire "mai vista prima", generata dalla capacità di Renzi di portare insieme tutti, grandi e piccini, inaugurando uno stile di politica semplice, veloce, di stampo molto nord-americano. Devo confessare che queste parole mi lasciano un po' interdetto. Sarà che sono sempre stato un vecchio trombone recalcitrante al cambiamento, ma di persone animate dalla voglia di portare in politica uno stile snello, "nordamericano", rapido, privo di orpelli, leggero e scevro di tutti quei lacci e lacciuoli che mummificano la cosa pubblica ne ho già vista una, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Di conseguenza, francamente mi sfugge come ci si possa entusiasmare di fronte a una forte semplificazione, quasi banalizzazione, di un'attività in realtà complessa e caleidoscopica come la politica.
Tutto quest'ottimismo, poi, non ho ben capito dove la nostra onorevole lo osservi. Sarà che vengo da una riunione di lavoro, incentrata proprio sulla situazione odierna in Europa, in cui una brava analista olandese sottolineava la condizione ancora difficile dei cittadini italiani. Affinché si possa parlare di un reale miglioramento delle loro aspettative, sosteneva la nostra analista, ci sarà bisogno di un calo sostanziale della disoccupazione, che per adesso è un miraggio e potrebbe avere luogo, forse, a 2015 inoltrato. Ovviamente, la nostra collega parlava dati alla mano, sostenendo il suo punto di vista con argomenti difficilmente attaccabili. Alla luce di questo, accolgo le parole dell'onorevole La Marca con una certa riserva, sentendole provenire da una persona che, non solo pare nutrire una quasi cieca fiducia verso il nostro Fonzie della politica, ma soprattutto è capace di affermare con orgoglio una frase leggermente inquietante come "il Canada è il mio Paese". La domanda appare chiara nelle nostre menti italiote: come fa una cittadina nata, cresciuta e ancora residente a 6 fusi orari dallo Stivale a sentire il polso dei nostri connazionali? E soprattutto, è utile che un cittadino sieda nel Parlamento di un Paese a tutti gli effetti straniero? Sarà l'età che mi gioca brutti scherzi, ma mi sembrava che il Parlamento dei canadesi risiedesse a Ottawa.
L'incontro va avanti spedito e la nostra rappresentante snocciola le caratteristiche dell'Italicum, enumerando uno a uno tutti i parametri numerici che ne regoleranno il funzionamento: la scena risultante non si discosta da quella di uno scolaretto che ripete le tabelline a una condiscendente maestra, ma è efficace per informare chi non ha ancora avuto l'occasione di andarseli a leggere su uno dei tanti quotidiani online. Ne parla ovviamente in toni quasi trionfalistici, come ci si aspetta da qualsiasi esponente pidino DOC certificato dal nuovo Politburo, anche se non nega l'opposizione interna che c'è stata nel partito, non solo contro il favoloso Italicum, ma anche contro la sacrosanta staffetta Letta-Renzi. Insomma, queste solite canaglie irriducibili, così refrattarie a ogni cambiamento, ancora infestano il nostro partito. Per dimostrare che le canaglie sono dappertutto e non basta volare fino a New York per lasciarsele alle spalle, puntuale arriva alla deputata una domanda molto provocatoria di una nostra iscritta che osa chiedere della mancata approvazione delle quote rosa. L'onorevole la descrive come una questione controversa, ritenuta però da molti "poco importante": a questa precisazione parte il sollievo generale di tutto l'auditorium. A supporto di ciò, la nostra ospite ci ricorda di come le schede siano già composte dal 40 – 50% di donne: l'emendamento respinto include meramente l'alternanza fra i due sessi. Da dove la deputata trovi la fonte di questi numeri, non è dato sapere, e francamente neanche è ritenuto necessario: che diamine, lo ha detto il partito, quindi non può che essere vero. Magari potessi fare così anch'io al lavoro.
Si parla a un'audience residente all'estero, quindi non si può non fare un cenno al sistema di voto per i cittadini italiani che si trovano fuori dal patrio suolo. Veniamo a sapere che noi votiamo con una legge elettorale diversa (non ce n'eravamo accorti), che è regolata dalla Costituzione. La cosa interessante è che, una volta approvato il trepidante Italicum, i nostri voti non saranno contabilizzati per il raggiungimento del fatidico 37% del premio di maggioranza: questo è senza dubbio un limite ma, a giudicare dall'opinione che mi sto facendo in questi stessi istanti di come vengono scelti i candidati nelle circoscrizioni estere, forse non è un male che viene per nuocere. Sembra che il voto degli italiani all'estero per la Camera rimanga, ma non si è sicuri su quello per il Senato: la nostra rappresentanza potrebbe scomparire, oppure i nostri voti potrebbero ricadere sui collegi italiani, ergo trasformando una rappresentanza diretta in indiretta. Queste sono le due "aipotesi" (sic!). Ovviamente, queste "aipotesi" si reggono sull'assunzione della sopravvivenza del Senato stesso, che pare invece uno dei bersagli preferiti dell'impeto rottamatore del nostro giovane premier: e qui ci sarà da godersi lo spettacolo dei senatori invitati a votare l'abolizione del loro stesso ramo del Parlamento, con conseguente perdita del proprio stesso scranno.
Di seguito, l'onorevole porta alla nostra attenzione, non senza una punta di giusto orgoglio, alcuni dei provvedimenti da lei sostenuti, come un emendamento per coinvolgere le comunità degli italiani all'estero in tutti i progetti per l'internazionalizzazione dell'Italia (ossia turismo, esportazioni). Questo emendamento era stato accolto dal Presidente Letta, presumibilmente prima di essere così poco elegantemente defenestrato dall'attuale segretario nonché premier. Pare che questo emendamento fosse stato discusso in una sede politica della quale la parlamentare non si ricorda il nome: comprensibile, dev'essere qualcosa di astruso, spesso gli organi politici hanno nomi piuttosto esotici. Chiede un aiuto alla platea: quest'organo si chiama "il consiglio…" e le manca la parte finale. Il Consiglio dei Ministri?, suggerisce un militante, evidentemente sprovveduto: figurarsi se una deputata non si ricorda il nome di un organo così basilare. "Grazie, il Consiglio dei Ministri, mi sfuggiva il nome", è la risposta serafica della nostra ospite. Forse è meglio se me ne sto zitto.
Si parla di copertura sanitaria per gli italiani residenti all'estero che tornano temporaneamente in Italia, e l'onorevole sottolinea l'importanza di creare accordi bilaterali fra Italia e Stati Uniti, nonché fra il nostro Paese (quello degli ascoltatori) e il suo (quello della deputata), come avviene con altre nazioni di tradizionale emigrazione italiana (Brasile, Argentina, Australia). Si parla anche di metodi per evitare le doppie imposizioni fiscali, e per riottenere la cittadinanza italiana una volta perduta. Si parla poi dei fondi per la promozione della lingua e della cultura, descrivendo in termini poco entusiastici la loro riduzione del 70% operata dal grande alleato del PD, con il quale il nostro partito si trova in profonda sintonia e governa insieme da ormai oltre tre anni: stiamo parlando, ovviamente, del Presidente Berlusconi, al nominare il quale la deputata stranamente non si inchina (questi giovani d'oggi, così privi di deferenza verso un forte alleato nonché padre della Patria). L'onorevole però si riscatta, riconoscendo il ruolo importante rivestito dai centri culturali, che possono aiutare l'economia italiana, e prendendo a modello i centri di altri Paesi (Francia e Spagna) dove si insegna la lingua con criteri ben codificati.
Grande attenzione viene poi posta alla situazione dei consolati d'Italia negli Stati Uniti: grazie al suo operato indefesso, siamo riusciti ad evitare due autentiche catastrofi come la chiusura dei consolati di Philadelphia e di Detroit, ma con sommo rammarico abbiamo avuto meno fortuna cercando di bloccare la dismissione del consolato di Newark. A quanto pare, quest'ultimo è stato ritenuto superfluo da alcuni grigi burocrati rintanati nelle sale del potere di un Paese straniero e lontano (l'Italia). A questo punto la discussione si fa accesa, quando una parte della platea fa notare all'onorevole come lo stato del New Jersey abbia storicamente accolto l'immigrazione italiana da molti decenni ormai. Per questo, l'importanza del consolato di Newark è ritenuta da molti fondamentale, e la sua abolizione ha generato un'ondata di indignazione fra molti italo-americani della vecchia guardia. Fra gli astanti, c'è addirittura chi non esita ad affermare che tale chiusura potrebbe far succedere qualcosa "malamente" per l'Italia.
Mentre l'operosa deputata disquisisce ancora, mi accorgo che non riesco proprio, con tutta la buona volontà, a stracciarmi le vesti per la chiusura di una sede consolare situata in così forte prossimità a un'altra esistente (quella di Manhattan). Certo, non è bene che gli abitanti del New Jersey siano costretti ad iniziare la loro giornata un po' in anticipo qualora avessero bisogno di rinnovare il passaporto, affollando conseguentemente il già indaffarato consolato dell'Upper East. Ma in presenza di una situazione così confusa e preoccupante in patria, proprio non ce la faccio a dedicare a questo tema alcuni dei pochi neuroni che mi rimangono. Sarò anche un egoista, ma sono costretto ad ammettere di essere molto più preoccupato per la sorte del PIL italiano piuttosto che per quella del consolato del New Jersey. Ciò di cui abbiamo bisogno sono politici che siano italiani fino al midollo come lo siamo noi, che abbiano vissuto e respirato il nostro Paese fino a conoscerne le viscere, in modo da essere capaci di proporre provvedimenti efficaci per lottare contro l'evasione fiscale, per abbassare le tasse alle imprese, per migliorare la competitività, per far rispettare i diritti in ogni sede, e per far recuperare all'Italia il divario che ormai la separa dagli altri Paesi sviluppati. Solo ciò creerebbe le condizioni per il nostro ritorno, al quale molti di noi aspirano.
Esiste un'altra immigrazione, di data molto più antica della nostra, che però abita qui da così tanto tempo da aver perso, per così dire, il polso della nazione e vive l'Italia attraverso il riflesso di ciò che si vede dalla loro nuova patria. La scelta di una persona che considera il Canada il proprio Paese, che parla di Napolitano come un "grande" presidente, e che pare non ricordarsi bene che cosa sia il Consiglio dei Ministri, sarà forse azzeccata per l'antica immigrazione, ma lascia decisamente perplessa quella attuale. Arrivo quasi a chiedermi se ho sbagliato porta, ma la visione di facce familiari fra gli astanti (alcune delle quali tradiscono un'espressione un po' sbigottita non dissimile dalla mia) mi fa subito scartare quest'ipotesi. Se questo è davvero il nuovo volto del PD, mi rallegro di non aver preso la tessera.
* Jacopo Coletto lavora a New York come analista finanziario in una delle maggiori società di gestione del risparmio americane. Ha conseguito una laurea in Discipline Economiche e Sociali presso l’università Bocconi e un master in Ingegneria Finanziaria presso l’Università di California a Berkeley. Frequenta il Circolo PD di New York