Romana di nascita, laureata in Filosofia politica, romanziera per vocazione, Giulia Caminito è la vincitrice del Premio Campiello 2021. Con l’esordio nella narrativa nel 2016 con il romanzo La grande A (Giunti), che racconta le alterne sorti, liberamente ispirate alla sua biografia familiare, del colonialismo italiano in terra d’Africa, la giovane scrittrice inanella una serie di prestigiosi riconoscimenti letterarai, tra i quali il Premio Berto, il Premio Bagutta (sezione Opera Prima) e il Premio Brancati (sezione Giovani). Seguono, nella sua produzione, la raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango e altri racconti (Elliot) nel 2017, la fiaba La ballerina e il marinaio (Orecchio Acerbo Ed.) nel 2018 e il romanzo Un giorno verrà (Giunti) nel 2019, ottenendo con quest’ultimo il Premio Fiesole. Il 2021 è l’anno della consacrazione nell’Olimpo letterario. Il suo terzo romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), finalista al Premio Strega, vince il Premio Strega Off e il Premio Campiello. La scrittrice si racconta a La Voce di New York.
Cominciamo dal suo recente trionfo al Premio Campiello. Se lo aspettava? Vuole descriverci cosa ha provato alla notizia?
“Non mi aspettavo come è andata, eravamo tutti e cinque possibili vincitori per me. Devo dire che ero molto agitata perché eravamo sul palco da un’ora e mezza con la diretta Rai, e parlare in diretta tv mi mette sempre apprensione, ogni piccola frase sembra come ingigantirsi, significare sempre altro. Poi ho visto la copertina del mio libro apparire e mi sono emozionata. È stato un bel percorso quello del Premio Campiello, inatteso, importante”.
Ha dichiarato che questo romanzo rappresenta un nuovo approdo per la sua scrittura. Cosa intende dire?
“I miei romanzi precedenti sono dei libri storici in cui cercavo di ricostruire alcune storie di famiglia e intrecciarle a delle vicende storiche meno conosciute della cultura italiana. L’ultimo libro invece è ambientato negli anni duemila, ho abbandonato il passato remoto per scrivere al presente e in prima persona. Volevo provare a smarcarmi dall’idea di essere una scrittrice di romanzi storici, per muovermi liberamente in qualsiasi direzione, e questo libro penso mi abbia dato tanta libertà”.
Ha dedicato la sua vittoria alle donne che, in alcune parti del mondo, faticano ad affermarsi nel mondo della cultura. Pensa che nella nostra civiltà occidentale si sia ancora lontani dalla parità di genere?
“Noi, come donne, siamo a un punto del percorso che è molto avanzato, ma alle spalle abbiamo secoli di discriminazioni e non solo per le donne, anche gli uomini ancora fanno i conti con l’immagine culturale, sociale e politica dei loro padri, dei loro nonni. Liberarsi del tutto è difficile, serve voglia, serve forza e sguardo per fare a meno dei fantasmi, delle immagini e dei simboli della discriminazione. Credo che molto del pensiero sulla situazione delle donne debba essere complesso, debba guardare alle grandi questioni, ma anche ai dettagli e analizzarli con accuratezza, senza vittimismi, senza strafare, ma usando ciò a cui abbiamo potuto accedere e che ora ci serve come coltello: l’educazione, la formazione, la ricerca, la letteratura, il pensiero. Negli ultimi anni molto del dibattito si è svolto intorno al ruolo delle molestie come forme di potere soprattutto in ambienti lavorativi e lì ancora la battaglia è aperta, credo”.
E lei si è mai sentita discriminata come donna?
“Io se ho subito tentativi di essere sminuita è accaduto sul lavoro, da parte di uomini adulti o donne adulte che hanno verso le altre donne atteggiamenti maschili da padri-padroni, meschine forme di controllo e di rivalsa. Nella scrittura sono stata finora più fortunata e mi sono confrontata soprattutto con i miei coetanei che si rapportano in maniera diretta, rispettosa e paritaria”.

La trama del suo ultimo romanzo si snoda attorno a due figure femminili, madre e figlia, forti e caparbie. Secondo lei quanto conta la figura materna per una giovane donna alle prime esperienze di vita e nelle relazioni future?
“Sicuramente conta, per forza conta, non vedo come non potrebbe. Conta anche per un giovane uomo, la nostra famiglia, quale che sia, dà una impronta alle persone che saremo, sia per somma che per sottrazione”.
Quali sono le motivazioni che l’hanno indotta, sin dall’inizio, a scrivere?
“La voglia di scrivere storie, raccontarmele. Ho sempre amato inventare storie fin da bambina, le altre già uscivano e compravano i reggiseni e imparavano a baciare con la lingua, io giovano alle bambole e costruivo scenari e relazioni complicatissime, ho sempre vissuto più per immaginazione e riflesso che realmente”.
Può raccontarci i suoi esordi letterari?
“Le prime cose che ho scritto le ho pubblicate online ed erano delle storie di vampiri, lupi mannari, leggende, maledizioni. Ricordo una delle prime in cui un fratello e una sorella erano legati da questa incomprensibile relazione: lui l’aveva aggredita da bambina ed era stato cacciato di casa, per poi tornare da adulto e fingere di essere migliorato, nascondendo una serie di segreti. Il tutto nell’Inghilterra dell’800 con di mezzo una allergia all’argento e una madre parecchio severa. Un misto tra la letteratura inglese e i telefilm sulla HBO: un disastro”.
Per una giovane scrittrice è importante avere qualcuno che creda in lei. A chi sente di dover dire grazie?
“Ai miei genitori, che da bravi bibliotecari mi hanno fatta crescere tra i libri. In particolare mia madre ha sempre scritto fin da quando ero piccola, è lei la vera scrittrice della casa. Poi a Roberta Mazzanti che ha letto ogni mia prova, fin dall’inizio e mi ha sempre lucidamente incoraggiata o criticata per farmi migliorare. Ad Antonio Franchini che mi ha traghettata nel mondo dell’editoria e ha sempre saputo intervenire sui miei testi con precisione e totalmente in armonia con il mio modo di lavorare sulla scrittura. E per ultime ma non per ultime, le mie amiche più care che negli anni mi hanno letta, sostenuta, incoraggiata, accompagnata tra un libro e l’altro”.
I suoi studi di Filosofia politica innervano in qualche modo le sue opere letterarie?
“Credo proprio di sì, e che io sia riuscita tramite la scrittura narrativa a recuperare ciò che ho studiato in quel periodo della mia vita, a trasformarlo e disperderlo nelle storie che ho raccontato nei miei libri”.

Recentemente ha assunto il ruolo di editor per la narrativa italiana per la Giulio Perrone Editore. Nonostante la crisi, le sembra di riscontrare un certo fermento letterario presso le nuove generazioni?
“In generale arrivano manoscritti da persone di tutte le età, la fascia di chi scrive di più comunque supera i quaranta anni. Sono pochi gli invii di giovanissimi autori o autrici, però ci sono. Ho notato soprattutto che i più giovani scelgono la forma racconto per la narrazione e nei racconti riescono a sperimentare maggiormente. Forse l’editoria e anche il pubblico di chi legge dovrebbero sintonizzarsi di più con questa volontà narrativa, o almeno io spero che lo facciano”.
È un’autrice dalla vena facile o lenta e tormentata? Qual è il suo metodo di lavoro?
“Tendo a dedicarmi a un progetto alla volta e a non sovrapporli e quando scrivo poi lo faccio ogni giorno in maniera continuativa, scrivo soprattutto il pomeriggio o la sera, uso per il ritmo l’ascolto di musica strumentale, devo stare completamente da sola e in una stanza che mi faccia sentire a mio agio, al sicuro, spesso piango o rido mentre scrivo, e preferisco avvenga lontano da chi mi troverebbe – senza torto – piuttosto bizzarra”.