Alessandra Lenzi, figlia dell’indimenticabile regista, sceneggiatore e scrittore Umberto Lenzi, non ha gravitato a lungo nel mondo del Cinema, al contrario dell’amato genitore. Si è fatta una famiglia; ha tre figli ormai grandi, (ha conosciuto un fonico sul set di uno dei film di papà, Hitcher in the dark, negli Stati Uniti, e lo ha sposato), e ha ripreso a lavorare facendo l’impiegata prima all’Enpals – mantenendo un legame con i lavoratori dello spettacolo – per poi finire (quando Monti pensò bene di scioglierlo) alla Direzione Generale Inps.
La incontro in questo 2021 che avrebbe visto compiersi il 90esimo compleanno del famoso genitore, ma che invece vedrà arrivare inesorabile, il prossimo 19 ottobre, il quarto anniversario della sua scomparsa. Un padre amato che nella nostra chiacchierata Alessandra non chiama mai papà, bensì Umberto.

Umberto Lenzi: chi non ne ha sentito parlare! Regista noto a livello internazionale, uomo di grande cultura, esperto di storia moderna, e negli ultimi anni di vita anche apprezzato scrittore noir. Ha vissuto per il Cinema. Della Settima Arte ne padroneggiava il linguaggio e le tecniche, tanto che più di qualcuno lo ha definito un ottimo artigiano del Cinema italiano. Pur snobbato da una certa critica, che poi negli anni lo ha rivalutato, ha avuto il pregio di portare la gente al cinema, in Italia e all’estero, facendo incassare con i suoi film quei soldi che poi spesso consentivano a certi produttori di produrre i film, definiti da altri, d’Autore. Il suo dogma? Che la gente al cinema dovevi farla ridere o piangere. Ricordiamo volentieri che Quentin Tarantino gli si inginocchiò davanti, al Festival di Venezia del 2004, quando gli fu presentato nella retrospettiva dedicata a “Italian Kings of the B’s”. Lo chiamo’ Maestro.
Conosciuto in tutto il mondo, con più di 60 film in carriera; ne ha scritti una quarantina. Tra i maggiori esponenti del genere poliziesco, ha diretto titoli divenuti dei cult movie del genere, come Milano odia: la polizia non può sparare, Roma a mano armata e Napoli violenta. Inevitabile accostare il nome di Lenzi a quello di un attore con cui ha avuto una lunga collaborazione, Tomas Milian. Con lui, Lenzi ha partorito molte pellicole rimaste nell’immaginario, fra cui Il giustiziere sfida la città (1975). Con lo sceneggiatore Dardano Sacchetti, il regista ha inventato anche il personaggio di Er Monnezza, simpatico e furbo ladruncolo borgataro, che appare in Il trucido e lo sbirro e La banda del gobbo.

Amante soprattutto del genere bellico (ricordiamo volentieri un suo film del 1978, girato negli Stati Uniti, dal titolo Il grande attacco, interpretato da attori come Henry Fonda, Helmut Berger e John Huston; Attentato ai tre grandi; La legione dei dannati; Contro 4 bandiere), giunto ai primi anni ottanta Umberto Lenzi si cimenta come i colleghi Lucio Fulci e Dario Argento (che aveva sceneggiato con lui La legione dei dannati), nel genere horror. Nello stesso periodo gira anche alcuni “cannibalici” che hanno avuto molto successo all’estero.
Una carriera varia, quella di Umberto, fatta di oltre 64 film che spaziano dal genere peplum allo spionistico, dal noir al poliziesco, dal giallo erotico al bellico, e che lo ha visto dirigere anche molti grandi attori stranieri: Henry Fonda, John Huston, Carroll Baker, Fernando Lamas, John Saxon, Mel Ferrer, Joseph Cotten, George Peppard, Jack Palance, George Hamilton…. Una carriera intensa, non facilmente riassumibile, e di cui comunque non ci occuperemo in questa chiacchierata con la figlia Alessandra. Con lei, proveremo in realtà a tratteggiare il suo profilo privato di uomo e padre.

Alessandra, ricordare il tuo amato papà, Umberto Lenzi, so che per te non è indolore.
“E’ proprio così. In seguito alla scomparsa di Umberto mi sono ritrovata a dover gestire l’enorme mole di fotografie di scena, copioni, soggetti inediti, premi, locandine, contratti, libri sul cinema, insomma tutto quello che concerneva la sua vita, ma soprattutto la sua carriera di regista. E’ stato veramente un percorso doloroso scegliere cosa fare di questi oggetti rimasti ormai orfani; molti ho deciso di donarli a Fondi intestati a suo nome (Centro Sperimentale di Cinematografia, Biblioteca del Museo del Cinema di Torino, Biblioteca di Massa Marittima), augurandomi di aver compiuto azioni che lo avrebbero fatto felice. Quest’operazione mi ha costretta per intere settimane a riguardare vecchie foto, a rileggere appunti, documenti; in poche parole, ho dovuto riesumare ricordi, e ripensare ad Umberto com’era da giovane ma anche e soprattutto al nostro rapporto padre-figlia”.
Iniziamo da qui, Alessandra. Parliamo del vostro rapporto.

“Umberto non è mai stato un papà convenzionale; era sempre “il regista”, anche dentro casa. Avevamo all’epoca una casa a due piani dove il piano superiore, con ingresso indipendente, era il suo studio, e lui praticamente vi passava la maggior parte del tempo: a scrivere, leggere, pensare, ricevere gli sceneggiatori. Lì lavorava. Mio padre nella vita aveva due grandi passioni: in primis il Cinema, che amava follemente, e poi la Storia, soprattutto del Novecento (in particolare quella relativa alla guerra civile spagnola; infatti, c’è un Fondo a suo nome presso la Biblioteca di Follonica). Come credo succeda a molti artisti, era dotato di poco senso pratico, e le banalità quotidiane, nonchè le incombenze familiari, sembravano non riguardarlo o lo infastidivano, ed infatti delegava mia madre dell’intera conduzione economica della casa. Non sapeva quanto costasse un chilo di pane, per capirci, però se andava da un produttore con un progetto di un film da lui scritto, sapeva quantificargli esattamente quanti soldi ci volevano per poterlo realizzare!”.
Aveva un amore sviscerato per il sogno dell’Arte e non era portato per la vita quotidiana, intendi?
“Sì. A proposito del suo rapporto con il denaro, mamma si lamentava sempre che si faceva pagare troppo poco dai produttori. Secondo me, in parte questo accadeva perché per carattere non era furbo e non sapeva contrattare, ma soprattutto perché dentro di lui bastava che gli facessero fare un film! Si divertiva talmente tanto a fare cinema che l’avrebbe fatto anche gratis! L’unico aspetto sul quale non sarebbe passato sopra nei contratti era avere il controllo del montaggio, secondo lui lo specifico filmico”.

Giocavate insieme quando eri piccola?
“No. Umberto non ha mai giocato con me da piccola, come anche non lo ha mai fatto con i nipoti; credo anzi che i bambini, almeno fino ad una certa età, li trovasse molto noiosi. Ha iniziato a provare per loro un minimo interesse quando sono diventati soggetti interagenti, ovvero quando potevano ascoltarlo parlare di storia o di politica, o vedere film insieme a lui. Tuttora, tra i ricordi più belli che anche io stessa conservo di lui, ci sono i film che abbiamo visto insieme al cinema, e che hanno segnato l’inizio della mia cultura cinematografica, anche se a volte un po’ precocemente: mi ricordo L’assassinio di Trotsky con la famosa scena della testa spaccata dalla piccozza, ma avevo solo sei anni! Tanti sono i titoli dei film (Dersu Uzala, La Stangata, Barry Lindon, Mephisto, Reds…) che associo alle domeniche pomeriggio io e lui da soli al cinema (tanti altri li ho dimenticati), e quei momenti per me speciali, naturalmente seguiti da dibattiti più o meno lunghi a seconda dell’età che avevo in ciascuna di quelle occasioni di discussione, mi ripagavano delle altre sue assenze come padre”.

Hai da condividere qualche ricordo di set con lui?
Qualcuno. Le volte in cui andavo a trovarlo da bambina sui set avevo l’immagine di un generale che va in battaglia… Dopo la sua morte, difficilmente ho incontrato qualcuno che non mi abbia detto di non aver litigato almeno una volta con mio padre. Aveva un brutto carattere. Nella vita era un grande oratore, e chiunque sarebbe stato ore ad ascoltare gli aneddoti che raccontava, ma sul set diventava un grande urlatore. Lui vi metteva piede avendo già in testa ogni inquadratura da girare, ogni posizione, gesto e mimica che voleva dagli attori; sapeva già come montare ogni singola scena, e se sarebbe bastata una o due macchine da presa; quanta pellicola gli sarebbe servita e così via: insomma, era padrone di ogni dettaglio e, ovviamente, pretendeva il massimo dalla troupe affinché tutto andasse secondo i suoi piani. Era anche sempre molto attento a rispettare i tempi di produzione, ovvero a non “sforare” mai sui costi, per una sua profonda lealtà verso i produttori. Purtroppo, non fu mai abile nel rapporto con gli altri; era un uomo tendenzialmente diffidente, e questo suo modo di fare, unito al fatto che pretendeva molto sul lavoro, spesso lo rendeva inviso. In poche parole, cinematograficamente parlando, sul set a volte si è rischiato una sorta di “ammutinamento del Bounty”. Personalmente, sono stata la sua aiuto regista in cinque film, e posso affermare che con me è stato se possibile ancora più severo che con gli altri collaboratori, proprio perchè ero sua figlia e quindi dovevo fare meglio e di più per evitargli figuracce! Infine, non bisogna dimenticare che era un toscanaccio fino al midollo, tanto che citava sempre Malaparte: “Maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani”. Qualcuno lo ha definito uomo senza ironia, ma il senso goliardico invece io ritengo che ce lo avesse: alla fine di molti suoi film organizzava sul set delle finte premiazioni, come la museruola d’oro all’attore/attrice più cane, il lecca-lecca d’oro al più ruffiano …ecc. e da qualche parte ho alcune belle foto con Tomas Milian su una di esse”.

Tuo padre era secondo te un uomo meritocratico?
“Sì. Umberto nei rapporti personali e professionali doveva poter stimare i suoi collaboratori, e se capiva di potersi fidare lasciava loro piena autonomia, e sapeva riconoscere eccome il merito altrui; questo perché era, al di là di tutti i suoi difetti, una persona perbene e leale. Questi aspetti sono stati riconosciuti in varie interviste da chi ci ha lavorato a stretto contatto, primo tra tutti lo sceneggiatore Dardano Sacchetti, poi la costumista Silvana Scandariato, o anche il Maestro Franco Micalizzi. Lui cercava, come altri suoi colleghi, di circondarsi di collaboratori a cui era legato e di cui aveva massima fiducia. Molti non ci sono più”.
A chi ti riferisci?
“A Franco Fantasia, per esempio, che come attore, aiuto regista e maestro d’armi è stato praticamente onnipresente (anche al suo matrimonio), o a Riccardo Petrazzi, stuntman e attore. E poi a tanti altri”.
Che giudizio ti senti di dare sui film di tuo padre?

“Da figlia ed appassionata di cinema (non sono una esperta) non mi sento di giudicare i film di Umberto Lenzi. Confesso anzi di non averli visti tutti e di preferirne alcuni (Milano odia: la polizia non può sparare – Sette orchidee macch:ate di rosso – tutti i suoi film bellici – Paranoia – Orgasmo). Posso dare solo una mia opinione sul suo lavoro: sicuramente, mio padre come regista aveva certamente difetti, ma sapeva il fatto suo e lo sapeva molto più di altri. Talvolta penso con grande amarezza che ha fatto il suo ultimo film (Hornsby e Rodriguez) nel 1992, quando era ancora giovanissimo (considerati i tempi “pensionistici” di oggi) e nel pieno della sua vivacità intellettuale (che ha mantenuto fino alla fine). Questo è successo per una serie di concause. Principalmente, quel tipo di Cinema a cui lui era devoto era oramai morto e sepolto. Alcuni suoi colleghi tentarono e/o riuscirono a riciclarsi come registi televisivi, ma lui no, anche per quel suo brutto carattere che finora ho descritto; poi, non faceva compromessi di alcuna sorta, e non aderiva a logiche di partito. Fortunatamente, dopo che negli anni del successo era stato bersaglio da attacchi ipocriti della critica di sinistra, tornò successivamente di moda, trasformandosi in regista vintage, grazie a Quentin Tarantino, a Marco Giusti, a Irene Bignardi, e soprattutto ai social network – a facebook in primis – e ai fans che lo cercavano; grazie anche agli studenti del Dams che facevano tesi di laurea su di lui, alle Università (Ca’ Foscari, Roma La Sapienza) che lo invitavano per convegni; infine, per merito anche di tutti coloro che lo cercavano per intervistarlo. Un giorno, tanto per dire, vennero a casa il figlio di Sylvester Stallone, Sage, (poi scomparso poco dopo), e Bob Murawsky, montatore di Spiderman tra l’altro, per conoscerlo e fargli firmare le locandine di Cannibal Ferox, di cui avevano acquisito i diritti per il mercato Usa per rimasterizzarlo in digitale. Insomma, Umberto ebbe almeno la consolazione di essere un professionista rivalutato quando era ancora in vita”.

Hai rimpianti, Alessandra?
Il nostro, ahimè, è stato molto un rapporto di aspettative mancate: io avrei voluto un papà “normale”, meno regista e più forse…boh…impiegato?? Intendo: un papà di quelli che l’estate hanno le ferie e ti portano in vacanza al mare e non “se papà fa un film si va dove lo gira, se no si resta a casa e si va in piscina”. Lui, sicuramente, avrebbe voluto che finissi gli studi universitari, e me lo diceva sempre: “Guarda me, che sono partito con la valigia di cartone dal paese, dove sono arrivato, e tu devi fare molto di più”.
Ti manca oggi tuo padre?
“Sì. Tanto. Non avrei mai pensato che Umberto, con quel suo carattere indomabile e scontroso, mi sarebbe mancato così. Invece, avverto il vuoto della sua onestà intellettuale e ripenso sempre a quel suo sguardo che s’illuminava ogni volta che parlava di Cinema”.