Lo so: se c’è un paese difficile da capire, sono gli Stati Uniti. Un tempo si parlava di “melting pot”: un crogiolo, in cui si amalgamano culture diverse, diventando una sola. Forse un mito, ma è il concetto base di una politica di integrazione perseguita per anni, decenni; un crogiolo indicato come modello da imitare per tutte le società multietniche.
Le cose oggi sono un più complesse; forse lo sono sempre state. Oggi credo che pochi si azzardino a parlare di “melting pot”. Più diffuso il concetto di “salad bowl”: mille ingredienti che conservano distinti i loro “sapori”. Tutti bevono la stessa Cola, indossano gli stessi jeans, le stesse felpe, ma quella è la crosta. C’è ancora il sogno-mito della casa in cima alla collina? Oppure ognuno cerca – e forse è giusto così – di conservare la propria identità, e anzi la rivendica?
Goethe, l’inventore del concetto di Weltliteratur (letteratura mondiale), grande conoscitore e ammiratore delle realtà culturali nazionali (inglese, francese, italiana greca, persiana, araba), era convinto che “in Sicilia si trova la chiave di tutto”.
Anche la Sicilia per tanti versi è difficile da decifrare, capire; sorprendente e misteriosa. Isola atroce e bellissima. Si può farne un parallelo – si parva licet – con gli Stati Uniti: loro pure, atroci, bellissimi, difficili da comprendere, facili e difficili da amare al tempo stesso. Anche gli Stati Uniti, volendo, “una chiave di tutto”(beninteso: oltre la chiave, occorre una serratura, e la porta).
Perché questo non breve preambolo? Il fatto è che accade di lambiccarsi il cervello e porsi domande che vanno al di là e oltre il postulato iniziale, che può originare da qualcosa di più che banale, irrilevante, perfino a un occhio non troppo meticoloso.
Accade anche in Italia che ci si appassioni alle vicende della casa reale inglese. Perché, non saprei dire. Di tutti i regnanti (in Nord Europa abbondano), si sa poco o nulla, poco o nulla interessano. Ogni tanto qualche attenzione a quella di Spagna, ma nulla a paragone di quella riservata ai Windsor. Ne ho qualche diretta testimonianza. Sono vent’anni e più che ogni giorno il mio edicolante mi rifornisce di quotidiani e pubblicazioni varie; sa perfettamente qual è il mio mestiere, da dove arriva il denaro che ogni giorno gli dò in cambio di pezzi di carta. Sa perfettamente di cosa mi sono occupato e mi occupo: dei mille misteri italiani, delle stragi, i morti ammazzati, gli attentati, i morti più o meno eccellenti. Mai una domanda, la richiesta di un chiarimento, una curiosità. L’eccezione: mi viene chiesto di partecipare a una trasmissione dove si parla della morte di Diana Spencer, il mortale incidente nel tunnel dell’Alma di Parigi. Si ricorderà che in tanti hanno accreditato la tesi del complotto, ordito dai servizi segreti inglesi. In quella trasmissione cercai di dimostrare l’insensatezza della tesi del complotto; si era trattato di un incidente dovuto a guida imprudente e spericolata. Quella è stata l’unica volta che l’edicolante mi ha chiesto lumi: “Ma davvero non è stato un complotto?”. L’unica manifestazione di curiosità rispetto ai mille casi di cui mi sono occupato…
Capisco dunque che i Windsor e tutto quello che ruota attorno a loro, appassioni e intrighi; o meglio: non ne sono sorpreso, perché capirlo non lo capisco.
Cosa c’entrano gli Stati Uniti? Ci si arriva. I Windsor sono, in concreto, una “società” di marketing un’industria; un’attrazione turistica che produce e macina denaro. A Londra si trova di tutto, con il volto della regina, del principe ereditario e il resto della figliolanza: tazze, bicchieri, sciarpe, cucchiaini, piatti, “bottoni”, perfino giganteschi lecca lecca. Business as usual.
Business anche quello di Meghan Markle e del moccolone del marito suo, di cui si può rispettare il dolore per come il destino gli ha sottratto la madre; ma non si giustificano esibizioni disgustose come indossare una divisa da nazista, o altre simili corbellerie.
La coppia, dopo essere “fuggita” da Buckingham Palace e svariate vicissitudini debitamente pubblicizzate, sono infine approdate da Oprah Winfrey: due ore di intervista per la “CBS” lautamente pagate. Va bene tutto, per carità: il trash e il cheap, il junk journalism, a ciascuno il suo.
Della rottura di Harry e Meghan con il resto della Royal Family personalmente importa meno di un fico; ma è un “dettaglio” rivelatore, un fenomeno che merita attenzione, il scalpore e l’interesse suscitato. Perbacco! Le accuse di razzismo sono state prese molto sul serio: si sono dibattute come e forse più delle mascalzonate di un Trump o la tragedia del Covid: un fiorire di pio-pio, bau-bau, miao-miao, bla-bla. E’ scesa in campo anche Michelle Obama, ci ha detto di non essere per nulla sorpresa che la famiglia reale covi del razzismo; la tennista Serena Williams non si è tirata indietro, e tante altre non si sono sottratte; un artista di street art ha dipinto sopra una centralina tra Crescent Heights e Sunset, nell’area ovest di Hollywood, un murales che raffigura Meghan vestita come quando ha rilasciato l’intervista; e una scritta esorta: “Keep calm and speak truth”.
Pazienza se la “vittima” nel frattempo si concede lussuose vacanze a Ibiza; indossa abiti che costano un anno di stipendio di una persona normale, si muove su jet privati. Pazienza se ha studiato fino all’ultimo fotogramma posture e atteggiamenti di quella Lady Diana intervistata dalla “BBC” nel 1995: lo stesso collo piegato nel raccontare quanto si è sentita sola e incompresa a Buckingham Palace. Pazienza se aveva già recitato nel documentario per ITV di Tom Bradby “Harry & Megan: An African Journey”, avendo ben cura di mostrarsi senza trucco, i capelli raccolti, un vestitino beige acquistato chissà, ai grandi magazzini. Quel documentario aveva strappato milioni di “like” e “WeLoveYouMeghan”. Anche allora un coro di “Non ha fatto niente, l’unica sua colpa è avere una madre nera”.
Da Martin Luther King e Malcom X, a Meghan? La questione del razzismo è una cosa tremenda, e tremendamente seria. Non può ridursi a una sorta di telenovela interpretata da un rampollo viziato e un’attricetta in cerca di visibilità e avida di dollari.
Ripeto: la questione in sé è di nessuna importanza, insulsa e ridicola. Proprio per questo, è fonte e causa di riflessione. Perché due personaggi come Harry e Meghan hanno assunto il rilievo che hanno assunto; perché una questione grave e tragica come il razzismo diventa gossip e merchandising; perché è così centrale in quella “salad bowl” che sono gli Stati Uniti, paese con una quantità di gravi e complicati problemi che solo a elencarli e individuarli ci si smarrisce? Come può essere che in un paese come gli Stati Uniti, “la chiave di tutto”, presti attenzione e passione a due furbacchioni con poca arte e nessuna parte? Oppure è una visione e una percezione deformata, quella che crediamo di cogliere e vedere; e c’è una quota maggioritaria di Stati Uniti che bellamente, semplicemente, giustamente, se ne frega? Sarebbe confortante se fosse vero. Ma allora il discorso si sposta su quanti non sono capaci di leggere una realtà che c’è, e ne spacciano un’altra, inesistente.