“Perdono perdono perdono” cantava nel 1966 Caterina Caselli “io soffro più ancora di te. Il male l’ho fatto più a me”. Spesso si sente dire: “Lo perdono”. Ma non si sente chiedere perdono, come nella canzone. Allora perché si dovrebbe perdonare?
Io non perdono. Ho imparato a non perdonare solo qualche anno fa, ovviamente solo i torti davvero gravi, quelli che ti lacerano l’anima, che il tuo cuore non può perdonare. E da quando ho adottato il sentimento del non perdono, sto benissimo. Prima mi maceravo, commuovevo, soffrivo. Perché in fondo chi perdona si aspetta gratitudine. Cosa che non avviene mai. Primo, perché chi ha commesso un fatto esecrabile si vergognerebbe con se stesso se lo ammettesse; secondo perché spesso considera che la sua azione sia stata la giusta conseguenza di un torto subito o di un vantaggio altrui che andava azzerato o rubato.
Cosa significa “perdono”? Per-dono è qualcosa che dai al fine di donare. È sinonimo di clemenza, compassione, indulgenza, remissione, grazia. Facile per un presidente della Repubblica che rappresenta una generalità di persone concedere la grazia; difficile per chi quel torto l’ha subito. Non credo a chi dice: “Mi ha ucciso il figlio, ma lo perdono”. È un finto precetto buonista di stampo cattolico, volto a raffreddare gli animi bellicosi. Ma raffredda anche un cuore amoroso. Se hai amato, non puoi perdonare. Perché significa scusare, giustificare, assolvere, lasciar perdere; insomma non dare valore a te stesso, sminuire quello che hai subito. Se accetti la mancanza di rispetto altrui, non rispetti te stesso. Non si tratta di scegliere tra rabbia e amore; non è che, se non perdoni, sei rabbioso e di conseguenza non potrai più amare. Se una persona abbietta non è in grado di innalzarsi, io di certo non mi abbasso per sguazzare nel suo letame. La evito semmai, fisicamente e con il pensiero, ma la catalogo per quello che è.
Per perdonare bisogna dimenticare. Ma come si può dimenticare? Si possono dimenticare solo i piccoli torti.
Secondo l’enciclopedia Treccani: “Il perdono non tiene in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando a propositi di vendetta, punizione, possibile rivalsa e annullando in sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa e del danno”. Scusate, ma nessuno di noi è Gesù Cristo.
Penso che una cosa sia rinunciare alla vendetta, che è segno di civiltà di un essere superiore, un’altra è annullare in sé ogni risentimento. Magari non è risentimento quello che provo, ma disgusto e disprezzo che mi portano a prendere le dovute distanze, sì. Gli psicologi dicono che bisogna rimettere in equilibrio la relazione. E perché mai dovrei relazionarmi con una carogna? Perché dovrei fare un atto di umanità e di generosità nei suoi confronti? Ciò non permette di riconoscere la profondità della ferita subita. Spesso poi chi ha commesso un delitto, non lo vuole ammettere, non è pentito, non vuole il perdono. Come lo si può perdonare? Perdonare non è sinonimo di dimenticare, giustificare, riconciliarsi. Perché il dolore lo continui a sentire e nemmeno ti viene riconosciuto. In più ti viene richiesto di rinunciare al bisogno di giustizia. Mio padre si rimetteva a Dio: lasciava che fosse Dio a decidere come agire con le persone che gli avevano fatto un torto. E prima o poi hanno sempre pagato.
Comunque, mio padre era una specie di santo, io no. Ho provato a fare del bene a chi mi ha fatto del male, ho ricevuto più male. Inutili le teorie psicologiche che ti dicono che la persona ti sarà riconoscente; macché ti odierà di più perché percepirà la sua meschineria. Ti dicono che se perdoni, vivrai più felice. Vivrai più umiliato e frustrato. Ciò non implica che ti devi vendicare, ma che devi avere la possibilità di considerare le persone per quello che sono. Se sono ladri, ladri, se sono assassini, assassini. Ed evitarli come la peste. Chi ha fatto del male, lo rifarà.
Qual è l’arma migliore, dunque? Vendetta o giustizia oppure ignorare? Ignorare fa sì che tu ti ponga talmente al di sopra da far sentire l’altro una nullità, perché nemmeno lo consideri arrabbiandoti con lui.
Non credo alla liberazione da sofferenze e emozioni negative perdonando senza condizioni, come suggeriscono preti e psicologi. Non ho bisogno di sentirmi buona, sono stata buona abbastanza, tutto ha un limite.
Il contrario di perdono non sono, come scrive il vocabolario, parole come odio, rancore, rappresaglia, castigo, vendetta. Non è corretto, in effetti non esiste un vero contrario. Né è vero che chi non perdona odia, che è il contrario di amore. Come si fa ad essere compassionevoli davanti a un grave torto? Verso qualcuno che ti ha fatto del male per anni? Puoi dimenticarlo come amico, ma non dimenticarti di cosa ti ha fatto.
Quando voglio cogliere meglio un concetto, indago la sua genesi in lingua latina. “Veniam impetro”: chiedo perdono. “Quod fecisti, veniam non habet”: quello che hai fatto non ha perdono. A questo punto uno può dire: ”Ignosco”: perdono.
Ignosco deriva dall’arcaico gnosco, cioè nosco: comincio a conoscere, imparo, apprendo; ma anche: osservo, indago; riconosco, ammetto. Pertanto, perdonare significa: conoscere dentro o piuttosto ammettere… che porta a dire: concedo, condono, parco: ti risparmio, ti evito.
Ignotum è il participio passato di ignosco e significa: è perdonato, ma è anche l’aggettivo neutro: ignoto, sconosciuto, ignorato, oscuro, ignobile.
Allora quello che è perdonato non è più conosciuto; è cioè dimenticato perché è ignorato o perché è ignobile? Al giorno d’oggi ne abbiamo perso il significato recondito che ha molte sfaccettature e ormai ignotum est.