Qualche giorno fa leggo sul giornale locale: “A vele spiegate R.L. saluta molto affettuosamente parenti e amici che gli sono stati vicino”.
Mi prende un colpo: Roberto morto? Ma come è possibile? Non l’ho più visto dai tempi dell’università, gli presentai un’amica che poi sposò, matrimonio riuscito, qualche tempo fa mi scrisse dei complimenti su Facebook… e ora si è fatto l’epitaffio! Non leggo quasi mai “la pagina dei morti” ma, a quanto ne so, il necrologio lo fanno i vivi. Trovo che abbia avuto fegato a prepararselo e rivaluto quel ragazzo che avevo etichettato noioso come un manico di scopa.
Penso: sarà stata una cosa improvvisa: covid! Ormai non si muore d’altro. Chiamo un’amica comune e mi dice che aveva il cancro, che la moglie l’aveva lasciato l’anno scorso mentre era già ammalato… Mi viene in mente che lei mi aveva tolto l’amicizia perché nei miei articoli dissacranti prendevo in giro “l’uomo forte di destra”. Per lei essere di destra era un atto di fede. Non importa quanto inetti o imbroglioni siano coloro che si professano di destra per carpire il voto della borghesia perbenista.
Vado sul diario Facebook di Roberto e trovo un suo post educato che lamentava con ironia il trattamento che l’amministrazione comunale riservava ai disabili come lui. Pure disabile? Stava per morire ed era ancora educato, come sempre lo era stato. E aveva ancora voglia di fare dello spirito. L’avevo sempre considerato senza personalità, invece era solo timido e non aveva coraggio di esprimere le proprie idee. Assecondava. Anche la moglie tutta la vita, la cui prepotenza era pari solo alla sua saccente ignoranza. Mi sono sentita in colpa come Emma, la protagonista dell’omonimo romanzo di Jane Austen che organizzava i matrimoni degli amici senza davvero comprenderli.
Che razza di matrimonio avevo combinato a un amico che era culturalmente ben superiore alla moglie? Quanto la deve aver sopportata? Ci si ammala anche per questo. Ma poi vengo a sapere che nell’ultimo anno aveva avuto l’affetto di una persona. E mi rincuoro.
Sempre su Facebook un suo compagno del collegio navale ha postato in suo ricordo una lettera a un giornale, direi preziosa per il messaggio universale che dà. Non so se sua, ma comunque significativa, perché non solo mi ha fatto comprendere che persona era, ma trasmette la statura morale della figura di un insegnante che temo, purtroppo, non esista più e che noi siamo stati gli ultimi fortunati ad avere. La trascrivo.
“Ricordo ancora la domanda che ci fece il professore di Filosofia il primo giorno di liceo: “A che cosa serve studiare? Chi sa rispondere?” Qualcuno osò rispostine educate (“a crescere bene…”, “a diventare brave persone…”). Niente, scuoteva la testa. Finché disse: “Ad evadere dal carcere”. Ci guardammo stupiti. “L’ignoranza è un carcere – aggiunse. – Perché là dentro non capisci e non sai che fare. In questi cinque anni dobbiamo organizzare la più grande evasione del secolo. Non sarà facile, vi vogliono stupidi, ma se scavalcate il muro dell’ignoranza, poi capirete senza dover chiedere aiuto. E sarà difficile ingannarvi. Chi ci sta?” Mi è tornato in mente quell’episodio leggendo che oggi solo un ragazzo su venti capisce un testo. E penso agli altri 19 che faticano ad “evadere” e rischiano l’ergastolo dell’ignoranza. Uno stato democratico deve salvarli perché è giusto. E perché il rischio poi è immenso: le menti deboli chiedono l’uomo forte”.
Il suo amico conclude salutandolo come gli sarebbe piaciuto: “Pale a prora, Roberto, e buon vento”. Sì, Roberto, tu sei salvo e arriverai lontano!