Caro Lettore,
Quando Mr. Farage e i suoi 29 adepti parlamentari europei il 3 luglio, alla cerimonia di apertura dei lavori del Parlamento Europeo a Strasburgo, hanno voltato le spalle al suono della Nona Sinfonia di Beethoven, sembravano aver preso in prestito un linguaggio non verbale di disobbedienza tipico degli infanti. Quelle spalle venivano profferte, senza ritegno, alla genitalità del maestro tedesco, punito in tal modo, probabilmente, perché riconosciuto da costoro come un antibrexit. Come altro poteva essere qualificato un Beethoven che aveva avuto l’ardire di comporre questa sinfonia musicale come incitamento alla fratellanza del genere umano? What a disgrace!, direbbe Mr. Farage.
Questo episodio mi ha riportato alla mente la giornata del 23 maggio scorso, quando in Gran Bretagna eravamo stati chiamati al voto per eleggere i membri del Parlamento Europeo.
Un voto propagandato in tono dimesso, tipico del sentire politico britannico, se poi si tratta di Europa la moderazione dei toni raggiunge quasi l’assenza di propaganda. L’ Europa in UK è come un’amante clandestina di cui nascondere le generalità, un’amante verso cui il sentimento è incerto, dubbioso, da cui si è tentati spesso di separarsi. Questo era stato il profondo dilemma in cui molti britannici si erano sentiti intrappolati; un sentimento che li aveva accompagnati al voto europeo: forse l’ultimo addio, l’ultimo abbraccio, l’ultimo voto?
La stessa sera del 23 maggio, dopo il doveroso voto, ero andata con la mia famiglia al consueto concerto annuale di fine anno nella scuola dei miei ragazzi a Oxford.
Dopo l’esecuzione della ‘Simple Symphony’ di Benjamin Britten, come per magia l’orchestra dei giovani studenti ha pizzicato le note del movimento finale della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, ‘l’Inno Alla Gioia’, o anche ‘L’Inno Europeo’; musica e lirica che nel passato aveva ispirato me e i miei coetanei dipingendoci con armonia il fascino dell’essere uniti in Europa.
La musicalità delle note del pezzo di Beethoven aveva di certo aiutato a rendere le aspirazioni dei giovani della mia generazione alte e ammirevoli; l’esultanza si diffondeva in noi al solo pensiero di sentirci protagonisti e coinvolti in un progetto così ampio. Avevamo la certezza che Unione Europea non fosse pura demagogia, avevamo capito che quella musica e quella lirica ci avrebbero condotto verso la realizzazione di un sogno; e chi meglio di noi giovani del ventesimo secolo poteva sentirsi conquistati dai sogni e dalle ideologie? La generazione dei nostri padri aveva dovuto superare le tragedia delle due guerre, a noi veniva passato il testimone per la creazione di una nuova società, un testimone che ci ammoniva che, seppure invasi da un amore profondo per le nostre origini, la vita ci avrebbe condotto oltre i confini nazionali.
Così, senza alcun dubbio io, come tanti miei coetanei, sin da giovanissima avevo deciso di essere europea, oltre che italiana. Era chiaro in me che seppure l’Italia mi aveva dato i natali, l’Europa mi avrebbe accompagnato per il resto della mia vita, avrebbe arricchito la mia formazione, facilitato incontri interessanti, offerto nuove aspirazioni, avremmo imparato noi giovani europei come vivere insieme fondendo i nostri bagagli culturali.
La mia generazione ha così potuto viaggiare, incontrare nuovi mondi, contaminarci con nuove culture, paragonarle e operare delle scelte, godere di tutto ciò e costruire un mondo di fratellanza fra i diversi paesi. Tutto questo aveva instillato ‘l’Inno alla Gioia’ in noi, le sue note si erano fuse con i nostri sogni e il romantico Beethoven aveva cominciato a vivere in noi.
Ora mi ritrovavo lì seduta accanto alla nuova generazione rappresentata dai giovani musicisti dell’orchestra e dai miei figli, tutti uniti da quella musica così carica di simbolismo, mi sentivo non solo loro contemporanea ma anche loro coetanea. Noi tutti, attraverso le note di Beethoven, stavamo condividendo un sogno in comune. Quello che ci univa era il religioso silenzio, quasi spirituale che cingeva il teatro: tutto il pubblico aveva compreso che i ragazzi stavano non solo suonando musica ma stavano scrivendo nell’aria discorsi, appelli, richieste di speranza, la gioia di un futuro nuovo, migliore. Mai sentita una propaganda così efficace.
Con quella musica i giovani musicisti avevano risvegliato in me il senso della lotta civile, un appassionato senso di europeismo: se loro con la musica stanno disegnando e inviando un accenno di protesta, ebbene noi adulti avevamo dovuto accoglierlo nei nostri sentimenti. Che emozione sapere che anche loro, i ragazzi britannici del ventunesimo secolo, stavano abbracciando l’Europa e che da essa erano decisi a non volersene distaccare: l’amore per l’Europa in note che ci stavano comunicando, era un amore vero, puro e non un sentimento da dispensare occasionalmente come ad una amante.
Con la loro performance musicale, piena di vigore, potenza, energia e allegria, erano decisi ad unire tutte le corde dei loro violini per legare l’Europa a sé, decisi ad allineare tutti i tasti dei loro pianoforti per creare un ponte sulla Manica, il rimbombo dei loro tromboni risuonava forte per lanciare nel mondo un disperato appello di speranza.
Essere testimoni di questo richiamo, da parte di questa giovane orchestra della società britannica, ad insorgere contro un possibile destino oscurantista, mi aveva reso fiera di essere li; pur lontana dal mio paese natale mi sentivo finalmente a casa. La risposta del pubblico ha fatto il resto premiando il messaggio europeista dei giovani musicisti con un applauso lungo, fragoroso, caloroso e speranzoso. 23 maggio 2019, termine del concerto ore 21.00: un ultimo appello prima della chiusura delle urne, ore 22.00. Riflettevo.
È utile ricordare il susseguirsi di quegli avvenimenti: il giorno dopo le elezioni, come una stonatura musicale, la Premier britannica Theresa May, in lacrime, aveva rassegnato le dimissioni travolta dal caos della Brexit.
I risultati furono annunciati pochi giorni dopo, la sera del 26 maggio, in ottemperanza al volere europeo che vuole la lettura dei voti in contemporanea nei vari paesi europei: un trionfo elettorale se l’era aggiudicato il nuovissimo (formatosi solo sei settimane prima del voto) Brexit Party di Nigel Farage che aveva ottenuto il 31,7 per cento, seguito dal partito Liberale con il 18,55 per cento (+11 per cento), premiato per la sua chiara posizione europeista, al terzo posto il partito labourista con il 14 per cento, punito per la sua ambivalenza, poi a seguire i Verdi che avevano raggiunto l’11 per cento e il partito conservatore, il Tory, che era crollato al suo minimo storico dell’ 8,7 per cento.
Io ho continuato a pensare che l’‘Inno alla Gioia’ a poche ore dalla chiusura delle urne, avesse avuto l’effetto sperato: infatti se è pur vero che il nuovo partito di Mr. Farage aveva ottenuto una percentuale sostanziosa, andava però considerato che sommando i voti dei partiti in favore dell’Europa si era raggiunta tranquillamente una maggioranza che era di gran lunga superiore alla volontà del brexit Party. Oggi, a mesi di distanza dal voto, la realtà britannica ancora rivela confusione e ambiguità politica in relazione al rapporto con l’Europa. Si naviga a vista, in una nave dove è ancora assente il direttore di una Nuova Orchestra che produca una musica europeista. Ci era riuscito Beethoven nel lontano 1824 con la sua sinfonia composta, per ironia della sorte, su commissione della London Symphony Society (1817). Nel ventunesimo secolo invece c’è ancora chi volta le spalle a quella sinfonia e ai valori in essa impresi. Non stanno forse Mr. Farage e i suoi adepti, voltando le spalle soprattutto al 73% dei giovani che in UK hanno votato per il rimanere in Europa? E come dovrebbe reagire a questo volta spalle la maggioranza degli elettori Scozzesi e Irlandesi che hanno votato nettamente per far rimanere il loro paese in Europa? È facile voltare le spalle, ci insegnano i fanciulli.