Un violino, una capra, colori accesi. Il mondo di Marc Chagall è un invito alla fantasia, al tempo ingenuo dei bambini, alla seduzione dell’arte. Ma le opere del pittore russo di origine ebraica parlano pure del dolore e dell’instabilità di un popolo perseguitato.
Dal canto suo, per lo scrittore rumeno Paul Celan, anche lui ebreo, la memoria del genocidio è il tema centrale della sua poesia. “Strappata dall’aria/ Strappata dalla terra./Giù/Su/trascinata”, scrive parlando della mamma assassinata in un campo di concentramento nazista. E le immagini agghiaccianti della sua “Todesfuge” (Fuga di morte) alludono alla Shoah con parole indimenticabili: “Nero latte dell’alba lo beviamo la sera/ lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte/beviamo e beviamo/”.
Chagall (Moishe Segall, 1887/1985) il pittore e Celan (Paul Antschel, 1920/1970) il poeta. E anche lo sport per la Memoria dello sterminio commesso dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e il sangue versato in altri genocidi come durante il Piano Condor delle dittature Sudamericane degli anni 60/70 del secolo scorso.
Pochi giorni fa, l’agenzia Ansa in un servizio da Bruxelles ha scritto che l’antisemitismo preoccupa “il 58 per cento degli italiani e un europeo su due”. Una preoccupazione nata dal negazionismo, con “aggressioni online, scritte su palazzi e istituzioni, minacce nei luoghi pubblici”, spiega la stessa agenzia stampa.
A Roma, a passi dei Fori Imperiali, un mese fa sono state rubate venti targhe della Memoria o “Pietre d’inciampo” in ottone della dimensione dei sampietrini, una creazione dell’ artista tedesco Gunter Demnig, che ha installato circa 50.000 in diversi Paesi di Europa per ricordare le vittime del nazifacismo. Le targhe rubate, subito riposizionate, sono dedicate alle famiglie ebree Di Castro e Di Consiglio, strappate dal palazzo di via Madonna dei Monti 82, dove vivevano.
Ma purtroppo il negazionismo non è soltanto una realtà europea: oltreoceano, in Argentina, il genocidio commesso dall’ultima dittatura militare (1976-83) ha subito diversi tentativi di rimozione, in particolare durante l’attuale governo del presidente Mauricio Macri, ingegniere e membro di una potente famiglia di imprenditori italo-argentini, capeggiata da Franco Macri, padre del Capo dello Stato.
Il piano sistematico e massiccio per annientare un gruppo umano, alla base dei crimini contro l’umanità, viene sostituito dai negazionisti argentini per “errori” ed “eccessi”; la Verità e la Giustizia che chiedono i sopravvissuti e i parenti delle vittime si considera “desiderio di vendetta”; si chiedono “prove” di uno sterminio commesso dallo Stato contro persone private di nomi e cognomi in campi clandestini di sequestro, tortura e morte, sepolti come NN o gettate vive nel Rio de la Plata, il fiume “grande come il mare” tra Buenos Aires (Argentina) e Montevideo (Uruguay); si afferma che i desaparecidos non sono 30.000 ma una quantità molto minore, tra 8.000 e 9.000; che i militari hanno agito per “salvare” la Patria del terrorismo, il comunismo e il caos…
Ma la Memoria dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime (Madres y Abuelas de Plaza de Mayo, Hijos, Familiares de Desaparecidos y Detenidos por Razones Politicas ed altri Organismos de Derechos Humanos) è viva e consapevole di costruire il futuro con Processi e Pene (Juicio y Castigo).
“Abbiamo imparato dai tedeschi di Hitler, dai francesi in Algeria, dalla Scuola Americana del Panama… Abbiamo messo tutto ciò nel setaccio e abbiamo creato la tecnica dei desaparecidos. Tu non sei detenuta, non sei in carcere, sei fuori della società, non hai più un nome e un cognome, sei un numero e una lettera”, si vantava “Soler” (ex sotto ufficiale della Polizia Oscar Rolón, ora condannato all’ergastolo) per dimostrare il suo potere mentre torturava una ragazza della Gioventù dei Lavoratori Peronisti (Dora Salas, chi scrive queste righe, sopravvissuta, D73 nel campo di sequestro, e che ha testimoniato in tre Processi Penali convocati in Argentina).
Tra i numerosi documenti per la Memoria sono particolarmente toccanti i libri di Miriam Lewin, sopravvissuta e giornalista, e di Mario Villani, fisico che è riuscito a sopportare le torture in cinque campi clandestini di sterminio.
Documenti e persone: infatti sono stati ritrovati grazie alla ricerca delle Nonne di Piazza di Maggio 128 (su un totale di almeno 500) figli rubati alle donne incinte sequestrate e assassinate dopo il parto. Tra questi bimbi oggi adulti, i nipoti della presidentessa e della vicepresidentessa delle Nonne, Estela Carlotto e Rosa Roisemblit, e di una Mamma di Piazza di Maggio italoargentina anche lei assassinata, Noemi Giannetti de Molfino.
Tra le vittime, molti cittadini italiani e italo-argentini, Angela Aieta in Gullo, Franca Jarach, Laura Carlotto, i fratelli Boitano, Domenico Mena, Norberto Morressi, i fratelli Guagnini, Guillermo Segalli, la famiglia Bettanin, i Pegoraro, Lorenzo Viñas Gigli, e tanti proprio tanti altri che uniscono nell’orrore Roma e Buenos Aires, l’Italia e l’Argentina, la shoah e il Terrorismo di Stato, le Pietre d’ inciampo rubate in via Madonna dei Monti e alcune Mattonelle di ceramica collocate nelle strade porteñas per ricordare i desaparecidos, alcune distrutte per mani anonime.
Memoria per costruire il futuro con un netto “Mai più” alle discriminazioni e il razzismo, versus Negazionismo, sinonimo di mancanza di giustizia, riduzione delle condanne (il “2 –anni- x 1” voluto dalle autorità argentine), muri alzati in terra o in mare per rifiutare i “diversi”. Negazionismo che nel mondo globalizzato di oggi apre le porte al “latte nero” di Celan.
Il governo di Macri, insediato il 10 dicembre del 2015, ha tentato di tutto e di più per “voltare pagina” mettendo nello stesso piano il boia e le vittime, i militari e gli oppositori politici, una “riconciliazione” mirata a favorire un progetto economico-politico neoliberista simile a quello della dittatura militare e del nefasto ministro dell’Economia, José Martinez de Hoz (1925-2013), responsabile della chiamata “patria finanziaria” e del debito estero.
E non solo. Nel secolo XIX la famiglia Martínez de Hoz è stata coinvolta nel genocidio commesso nella Patagonia argentina contro i mapuches, il popolo originario di quel territorio, sterminato per usufruire la sua terra, ottima per i latifondisti e i loro bestiami, un massacro negato dalla storia ufficiale, e dove oggi si è pure insediato l’imprenditore italiano Benetton con le sue pecore. E dove è stato ucciso un’ anno fa il giovane Santiago Maldonado, solidale con le lotte dei discendenti dei pochi mapuches sopravvissuti, una pagina buia del governo Macri.

Ma domenica scorsa a Roma, durante la ventesima edizione della Corsa di Miguel, competizione che ricorda il podista argentino Miguel Sánchez, una delle 30.000 vittime della dittatura civico-militare, gli occhi dell’ artigiano Maldonado ci hanno accompagnato.
Infatti, tra i quasi 10.000 corridori – atleti, uomini, donne, runner paraolimpici, giovani contro il razzismo, bambini- c’era il 21 gennaio l’argentino Martín Sharples, un simbolo della Corsa, che aveva stampato il viso di Santiago nella sulla maglietta.
Anni fa Martin, impiegato delle ferrovie e giocatore di rugby in un club della provincia di Buenos Aires, subí l’amputazione della gamba sinistra a causa di un’ incidente.
Allontanato per molto tempo del suo sport preferito, Martin ha trovato energia nelle corse e nel 2000 è arrivato a Roma per partecipare alla gara dedicata al suo connazionale desaparecido nel 1978. Quella volta la sua protesi, non adatta per il nuovo sport scelto, si è rotta durante il lungo tracciato, ma il podista, aiutato da altri due concorrenti, è riuscito a tagliare il traguardo, una gioia ripetuta domenica scorsa sulla pista all’interno dell’imponente Stadio Olimpico.
Martin regalò al corridore italiano che lo aveva aiutato nel 2000 la maglietta col viso di Maldonado, che la baciava dicendo alla Voce di New York che il suo gesto era “per le Madri di Piazza di Maggio”.
Ancora una volta, sfidando il freddo e la pioggia, si è corso per la Memoria e contro le discriminazioni, sorridendo nonostante gli sforzi e alzando le braccia al traguardo: simbolico volo verso un mondo solidale, senza frontiere né porti chiusi, senza immagini come quelle di Castelnuovo di Porto che fanno pensare alle deportazioni del XX secolo.
Martín, nato nel 1966 e che da poco è tornato ai campi di rugby, era commosso dopo la recente maratona di 10 km, durante la quale portava il numero 1. “Lo sport è un ottimo portabandiera nelle lotte per Memoria, Verità, Giustizia e mai più il silenzio”, afferma.
Senz’altro questo è il pensiero dei giornalisti sportivi Giorgio Lo Giudice, organizzatore della gara, e Valerio Piccioni, che dopo un viaggio a Buenos Aires ha conosciuto Elvira, sorella di Miguel già impegnata nelle gare di solidarietà in Argentina. Piccioni lanciò la competizione in Italia, un’evento che unisce lo sport e la Memoria.

Nell’edizione 2019 Said El Otmani e Laila Soufyane, atleti del Centro sportivo dell’ Esercito italiano, sono stati i primi tra i 4.155 podisti uomini e le 1.296 donne della gara competitiva.
Un’emotivo collegamento in diretta con Elvira e la partecipazione del presidente del Coni, Giovanni Malagò che ha corso tra gli amici-testimonial della gara, insieme ad una Onlus per il sostegno di malati di oncologici, hanno emozionato gli organizzatori.
Pure due olimpionici, Massimiliano Rossolino e Alessandra Sensinihanno hanno corso il 21, e tra i non competitivi c’erano gli “Strantirazzismo”, gruppi di scuola e il sindaco di Castelnuovo di Porto, Riccardo Travaglini.
Nell’ ottobre di quest’anno l’Argentina sceglie un nuovo presidente. Nel braccio di ferro tra Memoria e Negazionismo, il governo Macri non è riuscito ad imporre il suo piano di rimozione: il 2×1 ai militari condannati è stato contestato nel 2017 con una grande marcia, “la marcha de cientos de miles de pañuelos blancos” nel centro di Buenos Aires. Dopo, nell’ ultimo mese del 2018, la Corte Suprema di Giustizia ha annullato il beneficio per i responsabili del genocidio. I processi aperti proseguono, altri sono stati iniziati e nelle manifestazioni di diritti umani si sente uno slogan nato 40’ anni fa: “Ole,ole, ola, como a los nazis les va a pasar, a donde vayan los iremos a buscar (accadrà come ai nazisti, ovunque vadano, andremo a cercarli”).

Dora Salas, nata a Buenos Aires, di origine calabrese, è stata imprigionata (“desaparecida”) insieme al suo compagno durante la dittatura militare in Argentina. Liberata dal campo di concentramento cominciò subito la lotta in difesa dei Diritti Umani e fu nuovamente minacciata dal regime. Decise di cercare una vita più serena in Italia, dove trovò lavoro nella agenzia di stampa IPS di Roma. Dopo una decina di anni ritornò a Buenos Aires, lavorando all’Università di Scienze Sociali e all’agenzia Ansa, senza smettere mai di cercare giustizia per i 30 mila scomparsi e assassinati dai generali, tra i quali il suo compagno.