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L’invasione sovietica della Cecoslovacchia, un pezzo di storia condannato all’oblio

C'è un '68 di cui poco si parla e poco si scrive. Noi lo ricordiamo attraverso i racconti di due personaggi: il fotografo Josef Koudelka e Marco Pannella

Valter VecelliobyValter Vecellio
L’invasione sovietica della Cecoslovacchia, un pezzo di storia condannato all’oblio

Dimostranti circondano i carri armati sovietici i primi giorni dell'invasione di Praga (Wikimedia Commons).

Time: 6 mins read

C’è un ’68 di cui, anche a cinquant’anni di distanza – e nonostante l’anniversario “pieno”, si parla e si scrive poco. Reticenza, omertà forse spiegabile, comunque non giustificabile; e neppure, a voler sgomberare il campo dalla reticenza e dall’omertà: che resta allora l’ignoranza. “Ignorantia legis neminem excusat”, si dice nel mondo del diritto. Si può essere indulgenti nei confronti di quelle generazioni venute “dopo”. Ma chi ora ha i capelli grigi o imbiancati, sa; e per loro non c’è scusante.

Josef Koudelka (Flickr.com).

Il ’68 di cui poco si parla e si scrive è quello cecoslovacco. Allora in paese era ancora unito. Qualcuno dovrebbe per esempio realizzare una mostra con le straordinarie fotografie di Josef Koudelka. Chiamare Koudelka “mito” non credo sia esagerato. È l’autore di migliaia di fotografie della sua Praga, invasa dai carri armati sovietici; è grazie alla sua fotocamera se abbiamo la testimonianza della resistenza e del dolore di un popolo che viene violentato.

Koudelka è appena rientrato da un viaggio per un servizio fotografico sugli zingari della Romania. Sono le quattro del mattino del 21 agosto quando un’amica lo sveglia, al telefono urla “Sono arrivati i russi!”. Racconta: “Il tempo di afferrare la Esakta e mi precipito a piazza San Venceslao mentre gli invasori del Patto di Varsavia soffocano la primavera cecoslovacca”. I negativi di Koudelka lasciano la capitale cecoslovacca seguendo canali e itinerari clandestini; si riesce a recapitarli all’agenzia Magnum, finiscono sulle pagine di “The Sunday Times”; sono contrassegnate dalle iniziali P.P., sigla di Prague Photographer (“fotografo di Praga”), per il timore di rappresaglie contro di lui e la sua famiglia. Le immagini di quegli eventi diventano così drammatici simboli internazionali. Nel 1969 l'”anonimo fotografo ceco” è premiato con la Robert Capa Gold Medal dell’Overseas Press Club, “per la realizzazione di fotografie che richiedono un eccezionale coraggio”.

Nel 1970 Koudelka sceglie l’esilio, si rifugia in Gran Bretagna; apolide per diciassette anni, quando diventa cittadino francese. Da allora con la sua macchina fotografica ha vagabondato per il mondo: Spagna e Irlanda, Francia e Scozia, Portogallo e Albania, Italia e Romania… Istantanee in raffinato bianco e nero, severe, essenziali, spoglie, indovini la malinconia che è il tratto dell’autore, la sua “cifra”.

E ora, sempre una storia, di quel memorabile e insieme sconosciuto ’68.

Marco Pannella (foto Wikipedia).

Il protagonista di questa storia dai più ignorata si chiama Marco Pannella. Lasciamogli la parola: “Ci vediamo con un po’ di compagni e con la War Resister’s International, che è una vecchia associazione gandhiana, pacifista, con sede a Londra. Siamo un pugno di persone, e diciamo: “Qui c’è da fare una grande cosa: andiamo a farci arrestare a Mosca e nelle altre capitali dell’Est europeo, a denunciare nelle loro lingue che violano la loro stessa Costituzione, le loro leggi…”. Ecco dunque che si redige un testo comune in varie lingue: bulgaro, tedesco, polacco, russo; cecoslovacco, naturalmente. I testi vengono ciclostilati in migliaia di copie (all’epoca praticamente non esistevano fotocopiatrici, e altri mezzi di riproduzione). “La notte prima di partire stavamo a fare i doppi fondi delle nostre valigie, con dei compagni, per non farci fregare dai poliziotti. Io avevo scelto la Bulgaria perché in quel momento appariva il paese più pro-sovietico e arretrato”. Vanno in quattro: Pannella, Silvana Leonardi, Antonio Azzolini, Marcello Baraghini.

Su “Le Monde”, “The Times”, i giornali tedeschi, belgi, scandinavi l’iniziativa avrà una grande eco. Non così su quella italiana. Eccezione “Panorama”, in quegli anni diretto da Lamberto Sechi. Ecco la sua cronaca: “Marco Pannella, giornalista e fra i maggiori esponenti del Partito Radicale, non è nuovo alle contestazioni. La mattina del 21 agosto, solo poche ore dopo l’annuncio dell’invasione di Praga, era già con i suoi davanti all’ambasciata dell’URSS fasciato con un gran cartello sul quale era scritto: “Tradimento contro Praga, tradimento contro il Vietnam”. Poco più di un mese dopo, il pomeriggio del 24 settembre, era a Sofia a distribuire volantini contro l’invasione della Cecoslovacchia in una strada centrale, a due passi dall’albergo Balkan. Assieme a lui c’erano una professoressa di lettere di Roma, Silvana Leonardi, e due studenti, Marcello Baraghini e Antonio Azzolini. Erano andati in Bulgaria apposta, con una valigia piena di foglietti stampati in bulgaro, tedesco e russo. Il volantino, intitolato “Proclama in nome dei vostri compagni cecoslovacchi”, conteneva frasi di questo genere: “L’occupazione di Praga è un colpo terribile per il futuro del socialismo nel vostro Paese”. Arrestati e interrogati a lungo dalla polizia Pannella e i suoi amici sono stati rilasciati dopo circa trenta ore, quando il controspionaggio bulgaro ha accertato che si trattava di appartenenti all’organizzazione pacifista “War Resisters International”. Intanto altre undici persone di questa organizzazione compivano altre imprese del genere a Varsavia, Mosca e a Budapest. La “War Resisters International” è una vecchia organizzazione che già negli anni Trenta si batteva per l’obiezione di coscienza…”. Non sono molti in Italia ad esprimere consenso e solidarietà con l’iniziativa radicale: ricordiamoli, a loro merito e nostra memoria: Aldo Capitini, Guido Calogero, Danilo Dolci, Ferruccio Parri”.

Ora il racconto raccolto dalla voce di Pannella: “Nella centralissima via Stomboliski, a due passi dall’albergo Balkan, distribuiamo volantini, distanziati di una ventina di metri l’uno dall’altro. Sono le cinque del pomeriggio, ora di punta per la capitale bulgara. Gli operai escono dalle fabbriche, gli impiegati dagli uffici e tutti, incuriositi e cortesi, prendono i foglietti. Il nostro abbigliamento – maglioni, blue jeans e minigonna – non lascia adito a dubbi: siamo occidentali. E ancora meno dubbi lascia il contenuto dei volantini, di due tipi. Tre brevi frasi in bulgaro, l’uno: “Basta con la NATO, basta con la guerra nel Vietnam, basta con l’occupazione della Cecoslovacchia”; un lungo appello in russo e in tedesco ai paesi del Patto di Varsavia perché ritirino le truppe dal territorio cecoslovacco, l’altro. Centinaia di fogli passano di mano in mano, sono letti con estrema attenzione perfino dai soldati e dai vigili urbani. Trascorrono ben quindici minuti prima che un uomo e una donna in borghese arrivino trafelati e blocchino la diffusione. L’uomo prende per il collo il più giovane dei quattro, gli sputa in faccia e gli grida più volte: “fascista”. La risposta è pronta: un sorriso cordiale, un cenno di diniego e poi “no, no, socialista”.

I quattro, con le borse e le valigie cariche di volantini, lasciano Roma per Sofia, in transito turistico, il 22 settembre. Solo la ragazza conosce qualche parola di russo, sufficiente appena a decifrare i misteriosi caratteri cirillici che appaiono dappertutto. Frettolosa ricerca di una pensione, un po’ di tempo per capire com’è fatto il centro della città e poi a dormire. Si sono divisi i compiti: “Per tutta la mattina Marcello e Antonio girano per Sofia, lasciando alcune migliaia di volantini sulle panchine e nelle buche per le lettere, nei bar e nei ristoranti, mentre Marco e Silvana scrivono un appello al Comitato Centrale del partito comunista bulgaro che non riusciranno mai a far pervenire perché nessuno in città sembra conoscere l’indirizzo richiesto”.

Nel primo pomeriggio ancora volantinaggio clandestino a coppie e poi, alle cinque la manifestazione in via Stomboliski. I tre uomini vengono fermati e accompagnati in un posto di polizia. Silvana riesce a distribuire volantini ancora per dieci minuti, finché ha uno scontro verbale con un agente in borghese che le sequestra il pacchetto. Poi sembra dimenticata ed ha tutto il tempo di recarsi alla stazione, dove attende inutilmente per sei ore in una sala d’aspetto d’essere fermata. Viene presa in piena notte in uno scompartimento ferroviario diretto a Belgrado. “La prima reazione dei poliziotti è di stupore. Ma chi diavolo sono questi quattro guastafeste? Leggono e rileggono i foglietti in tre lingue, vogliono sapere se si tratta di un’organizzazione internazionale anti-socialista, di fascisti, di agenti della Cecoslovacchia. Poi entrano in scena i servizi di sicurezza, inequivocabili funzionari in impermeabile scuro che prelevano i quattro e ci trasportano in auto alla periferia di Sofia, nella sede della polizia segreta, dove siamo trattenuti ancora un giorno, fino all’espulsione dal paese”.

Inaspettatamente, uno per volta, i quattro sono accompagnati in un salone pieno di giornalisti, di corrispondenti della radio, di cameramen televisivi: E’ una conferenza stampa organizzata dai servizi di sicurezza per mostrare al popolo i provocatori occidentali. Pannella si rifiuta di rispondere ai rappresentanti della stampa bulgara: “Nel mio paese è chi convoca le conferenze stampa a rispondere. Io non ho convocato niente, anzi sono stato convocato. Quindi non ho nulla da dire. Avrei si delle domande da porvi, ma non credo che abbiate intenzione di rispondermi”.

L’ultimo atto è l’espulsione: grandi automobili scure che accompagnano, due per volta, i quattro fino al confine con la Jugoslavia, l’ingiunzione agli “italiani banditi” a non tornare più in Bulgaria, l’autostop fino a Belgrado, il ricongiungimento in questa città. Sorte non diversa è stata riservata ai gruppi di Mosca, di Varsavia e di Budapest. Più difficile la posizione dei volontari in Ungheria, che sono stati affiancati nella manifestazione da numerosi studenti ungheresi e che – forse per questo – rischiano un processo per attività sovversive. Ma alla fine sono stati rilasciati anche loro.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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