Anche quest’anno è giunto il momento di commemorare il più grande disastro minerario nella storia degli Stati Uniti, che ha ucciso, 110 anni fa, molti più italiani della ben nota tragedia di Marcinelle del 1956 in Belgio. La mattina del 6 dicembre 1907, infatti, gli italiani erano quasi la metà dei circa 360 uomini che morirono in miniera a Monongah, nel West Virginia. Nel 2003, una serie di articoli prodotti da Gente d’Italia ha fornito un prezioso affresco per informare il pubblico italiano di questo disastro. Anche perché le conoscenze degli italiani del disastro del 1907 sono sempre state “modellate” da quanto letto nei documenti USA (errati) e filtrate da “tradizioni orali” dei virginiani occidentali e degli immigrati italiani del XIX secolo. Il risultato delle commemorazioni del centenario del 2007 può essere giustificato per le modalità delle stesse, “viziate” dal punto di vista storico. Mentre in Italia un peso lo ha avuto la presenza di testi inappropriati, di ritratti e di monumenti imprecisi. Ma il comportamento di certi imprenditori italiani nel momento della commemorazione del centenario, beh, quello non può proprio avere giustificazione. Molti hanno perpetuato e abbellito la falsa leggenda del disastro e dei morti e continuano a sacrificare la storia vicina ai fatti, per ricavare un guadagno dalle commemorazioni. Molti hanno infatti ignorato le pratiche minerarie, la cultura, la geografia e le fonti primarie – tra cui le note di avvertimento giunte al tempo dal consolato di Filadelfia del 1908, sulle morti italiane – ma al tempo stesso, naturalmente, hanno pubblicato ricerche nonostante ciò. Hanno creato una farsa partendo da evento reale della storia americana e italiana. Questo mio commento è quindi offerto agli studiosi e ai cittadini negli Stati Uniti e in Italia che non accetteranno notizie false né i fatti riportati fino ad ora, e si potranno tutelarsi grazie all’utilizzo di questi elementi, spendibili all’interno dei libri di testo o dei programmi scolastici italiani.
Il 110° anniversario del più grande disastro minerario nella storia degli Stati Uniti dovrebbe essere accolto con vergogna e commemorazione – una vergogna dovuta al trattamento riservato alle vittime italiane da parte delle loro élite native, così come dai loro capi americani, e certamente anche da quegli imprenditori che, auto-nominatisi responsabili della loro commemorazione, si sono presi e si prendono gioco della loro integrità nel rendere omaggio chi ha trovato la morte con il lavoro. Tuttavia, le commemorazioni del centenario italiano dovrebbero essere giudicate per aver favorito una versione falsa della storia, visto che in gran parte sono state legate a una storia “per sentito dire”, più che alla reale conoscenza dei fatti.
Dovrebbero essere scusate queste commemorazioni per non aver considerato le testimonianze degli italiani sopravvissuti alle esplosioni o dei minatori italiani sepolti a Monongah, che non erano morti durante il disastro. O ancora per aver rappresentato ragazzi giunti dalla Pennsylvania come ragazzi che lavoravano nelle miniere della West Virginia, o perché no, per aver accettato in modo acritico, assurgendolo a priori come fatto, la storia dei depositi post-sepoltura per alcuni dei corpi, in una trincea interna al cimitero italiano. O di nuovo, la leggenda di minatori morti il cui decesso non è mai stato riportato, o ancora di non aver seriamente approfondito la vita e le testimonianze di vedove e bambini. O ancora, per aver erroneamente applicato il cosiddetto “buddy system” alle miniere di Monongah o per aver riproposto l’immagine e il testo “truccati” di un cartello stradale della West Virginia. E molti altri difetti che sono stati possibili perché tramandati per via orale, ma senza prove solide.
Quando nel 2003 alcuni italiani visitarono la West Virginia riferirono quello che avevano sentito dalle persone di Monongah. Persone che in realtà non avevano mai letto le udienze legislative dello Stato della West Virginia relative al disastro, che non avevano mai utilizzato documenti italiani o condotto lavori sul campo in Italia, né discusso con discendenti di minatori italiani che erano morti o fuggiti (non sapevano nemmeno della loro esistenza, a volte). Persone che non avevano nemmeno esplorato gli archivi di una vicina università, né avevano dovuto affrontare la straziante prova di assistere a pezzi di carne decomposta (non corpi) di fronte ai loro occhi. Persone che, tuttavia, sono state ben disposte a farsi intervistate, a proclamare quanto sapessero (senza in realtà saperlo), a scrivere, a cantare ed esplicitare certe sciocchezze in diverse sedi. In breve, gli italiani hanno sempre appreso e riportato la storia di ciarlatani americani e italo-americani, giunta da una città di provincia in uno stato provinciale. Così, facendo queste considerazioni, è difficile riuscire a scusare il governo italiano per aver collocato un monumento nel cimitero di Monongah, il cui testo non ha alcun supporto empirico e la cui immagine denigra il lavoro di chi è morto, come i minatori di Monongah.

Inoltre, quegli italiani non avevano avuto né il tempo né i mezzi per penetrare nelle sordide profondità del pantano culturale del West Virginia, per capire l’impatto di quel dramma sui migranti italiani di allora, così come sulla storia di Monongah. Uno storico di Fairmont ha ben inquadrato la visione “nativista” del disastro: “A nessuno importava niente di quelle persone morte”. Questa persona ha anche sottolineato: “A lungo non mi è stato nemmeno permesso di uscire con gli italiani (La mia nonna di Morgantown ha tenuto una pistola in casa per essersi rifiutata di farsi intimidire dal Klu Klux Klan)”. Il disastro di Monongah non faceva nemmeno parte del programma scolastico delle scuole della città. Così erano le tradizioni tramandate oralmente dei migranti italiani a colmare il vuoto dell’ignoranza “nativista”, nella rovinosa storia di Monongah. Un professore di storia nello stato della West Virginia ha sottolineato che uno dei compiti principali di uno storico è quello ripulire il caos provocato dalla leggenda e dal mito, che spesso tessono la conoscenza storica locale di un territorio. Tuttavia, i custodi contemporanei della conoscenza in West Virginia la crivellano attraverso lo schermo del loro provincialismo, creando non pochi problemi agli studiosi più seri. Monongah non è mai stato il luogo in cui incoraggiare la ricerca sui migranti transnazionali, né il luogo dove acquisire informazioni accurate, bensì è un posto facile da “colonizzare” con commoventi commemorazioni.
Fin dalle celebrazioni del centenario, questo approccio, che sembra avere il suo “epicentro” a Campobasso, ha violato le norme fondamentali dell’indagine e della decenza. Invece di assumere comportamenti “research-informed”, legati a doppio filo alla ricerca e all’approfondimento, questi ciarlatani hanno infatti echeggiato, contorto e abbellito il mito di Monongah, andando oltre il riconoscimento della verità. I risultati, creati senza ricerca, hanno prodotto una farsa. Ecco alcuni esempi: un Molisano ha rilasciato un’intervista, pubblicata il 6 dicembre 2011 su un giornale del Fairmont, in occasione del 104° anniversario del disastro di Monongah, in cui ha aumentato il numero dei minatori morti a Monongah a oltre 500 unità – includendo anche i marinai come minatori. Non solo. Nell’ambito della 105esima commemorazione dell’anniversario a Campobasso, il numero di minatori morti è stato ulteriormente gonfiato e aggiungendo finzione a una ancor più grande tragedia, donne e bambini sono stati “inseriti” nelle miniere il giorno del disastro. Durante lo stesso ricevimento di Campobasso, il Molisano che aveva inserito i marinai tra i minatori ha accettato di buon grado di ricevere un riconoscimento per una ricerca che non ha in realtà condotto e le cui informazioni hanno ingannato i vertici dei sindacati lì presenti, che con orgoglio rivelavano la storia di una vedova italiana eroina di Monongah, con retorica sciovinista e facendo leva su fatti inesistenti. Ora, un altro Molisano, “Presidente della Monongah Cultural Society”, parteciperà alle commemorazioni del 110° anniversario a Monongah, il 6 dicembre 2017. Sono state anche organizzate orchestrazioni e commemorazioni “decise dall’alto”, nel paese provinciale. Spendere risorse economiche per onorare i minatori morti può essere un modo onorevole per “accumulare” capitale politico – ma solo non se sarà usato come leva per introdurre false narrazioni nei testi italiani. Nel frattempo abbiamo perso, e stiamo perdendo velocemente, ricordi viventi di Monongah negli Stati Uniti e in Italia e, naturalmente, la necessità di comprovarli nei fatti. Le storie di donne fatte da vedove devono essere ricostruite attraverso una ricerca seria, non casualmente “rubacchiata” con il mero obiettivo di farle riprendere e pubblicare dalla stampa italiana. Se manteniamo il rispetto nei nostri cuori per quegli uomini morti di Monongah – e il tipo di persone che rappresentano -, la memoria, le informazioni, i documenti e la buona volontà saranno messi a disposizione dall’intero paese. O almeno lo sono state nelle commemorazioni del 1983, così come nell’ottobre 2017 e in molte altre occasioni intermedie. Ma tutto questo non accadrà se le indagini condotte con competenza verranno vietate. Gli italiani che emigrarono per lavorare nelle miniere statunitensi furono ritenuti persone di scarsa importanza per le loro élite locali, ma molti preferirono subire lo sfruttamento dei loro capi miniera, piuttosto che la situazione che avrebbero dovuto affrontare a casa loro. In ogni caso, le loro vite sono state soggiogate da entrambi i lati – e ora rappresentano un “tesoro”, che va onorato nella morte. La storia è spesso modellata da preoccupazioni legate alla politica o dalla volontà di far carriera ma, in questo caso particolare, questa versione di Monongah sta alienando gli Stati Uniti e gli italiani da una storia condivisa. Monongah è un evento storico troppo significativo per essere lasciato ai ciarlatani, per essere lasciato lontano dalle vite mai rivelate – quelle dei minatori e delle donne che sono decedute.