Leonardo Sciascia, nel suo romanzo Il giorno della civetta, l’ha chiamata “la linea della palma”. Come l’ago di mercurio di un termometro, diceva lui, che sale, su su per l’Italia. Ed è già oltre Roma. Una metafora che oggi viene letta come una profezia lucida. Di questa Italia che sta diventando Sicilia.
La linea della palma è il nuovo documentario prodotto da Club Silencio e l'Associazione antimafie daSud e realizzato dal giornalista Luca Salici insieme ai registi Corrado Fortuna e Gaspare Pellegrino.
Un viaggio nella Sicilia, da Palermo a Catania, filmato subito dopo le elezioni regionali che hanno portato alla vittoria l’attuale presidente Rosario Crocetta, testando gli umori della gente, raccogliendo testimonianze di rappresentanti istituzionali, sindacali e del mondo dello spettacolo. Ne nasce uno spaccato vero, realista, che ci consegna una Sicilia pessimista, quasi condannata all’immutabilità.
Ne abbiamo parlato con uno degli autori del video documentario, Luca Salici, giornalista catanese da alcuni anni a Roma dove ha collaborato con la redazione di Paese Sera e collabora tutt’ora con l'associazione antimafie daSud. Nel 2016, Luca farà parte della squadra di giornalisti di Beati Voi, il programma di Alessandro Sortino in onda su TV2000 e dedicato alle inchieste ambientali.
Le interviste sono state realizzate subito dopo l'elezione di Crocetta e nonostante le speranze della campagna elettorale, domina sin da subito un forte pessimismo. Cronaca di una disillusione annunciata?
“Sì, purtroppo. Questo documentario è rimasto chiuso in un cassetto per tre lunghi anni. Tanti i motivi, personali e professionali, che ci hanno portato a non pubblicarlo. Anche, perché non volevamo incappare quella sensazione insopportabile che ci avrebbe portato a dire 've l’avevamo detto che finiva così'. Durante le riprese alternavamo diversi stati d’animo. Di fatto è stato un viaggio anche per noi: da Roma alla Sicilia, nostra terra d’origine; ma anche un viaggio dentro i nostri ricordi, le nostre speranze, i nostri sogni e anche dentro le nostre famiglie. A Catania, a Palermo e a Paceco (TP) siamo stati proprio accolti dai nostri genitori: con loro parlavamo di questo documentario e di tutte quelle motivazioni che hanno portato milioni di siciliani all’astensione. Eravamo disillusi forse. Ma anche convinti che stavamo raccontando finalmente una Sicilia diversa, fatta da volti nuovi, under-40, non 'famosi' dal punto di vista televisivo. Per questo nel doc ci sono le testimonianze di giovani cronisti, di Valerio Marletta sindaco di Palagonia; di Lia Sava, magistrato bravissima ma meno alla ribalta dei colleghi; Di Matteo e Teresi, e una sfilza di politici alla prima legislatura che per esigenze di spazio non sono potuti rientrare nel montaggio finale del documentario: penso a Erasmo Palazzotto di SEL, Claudia La Rocca del M5S, Fabrizio Ferrandelli del PD e tantissimi altri. Insomma la speranza che qualcosa cambiasse c’era. Oggi, dopo la quarta giunta Crocetta, onestamente dire che qualcosa sia davvero cambiato è compito molto difficile”.
Quali sono stati i sentimenti più forti che avete raccolto tra le persone intervistate in giro per la Sicilia?
“Te lo dico in siciliano: la gente era disfiziata Stanca, stufa, scoraggiata. Era solo una anticipazione di quello che sarebbe accaduto da lì a poco. Infatti nelle elezioni nazionali qualche mese dopo venne confermato un grosso dato di astensionismo, certo non paragonabile a quello delle regionali siciliane 2012, e alcune “sorprese” non furono più tali: l’exploit del movimento di Grillo era già stato anticipato in Sicilia, la coalizione PD-PDL (con UDC, Scelta civica e MPA) fu una strada in qualche modo 'provata' da Crocetta, l’antimafia veniva utilizzata come categoria politica per la compilazione delle liste e completamente svuotata di senso”.
Nelle domande si parla spesso di antimafia, mafia al Nord e vittoria dell’astensionismo nelle ultime elezioni regionali. Sono i fili che legano il vostro documentario ma anche temi molto attuali.
“Attualissimi. Soprattutto se pensi a tutte le siciliane e a tutti i siciliani che ci hanno risposto che la mafia 'stava a Roma' e non in Sicilia e colleghi tutto con l’inchiesta Mafia Capitale che ha dimostrato come uno dei business della nuova criminalità organizzata fosse la gestione di un grosso centro di accoglienza come il Cara di Mineo, che si trova proprio al centro dell’Isola”.
Abbiamo visto anche un Franco Battiato pieno di speranza. Poi sappiamo come è andata a finire. Perché secondo te Crocetta ha deluso tutti?
“Perché ha fatto promesse che non poteva mantenere. Ha promesso soprattutto la rivoluzione. Una cosa non da poco. È stato subito frenato dagli accordi politici che ha stretto per diventare presidente della Regione. Ha ereditato una situazione catastrofica. E devo dire che non ha fatto nulla per uscirne. Anzi, è sceso anche a patti con personaggi discutibili per mantenere la poltrona. Ma quest’ultimo è un giudizio squisitamente personale”.
Il finale è molto pessimista. Trionfa comunque un realismo gattopardiano. Come se la Sicilia fosse condannata all'immutabilità. Tu da giornalista che ha lasciato Catania per Roma, come vedi questa condizione?
“Oggi non la separo più dalla situazione nazionale. Catania e Roma oggi non sono diverse. La corruzione, le mafie, l’integrazione, la mobilità che non funziona, i diritti scambiati per favori. Non pensiamo siano posti agli antipodi. Sono sfumature diverse di una realtà che è molto simile da Lampedusa a Bolzano. Anche il mio essere giornalista forse è cambiato radicalmente. Forse non mi sento neppure più tale. C’è bisogno di agitare culturalmente questo Paese. Di ripartire davvero dalle scuole, ma non con le lezioncine di legalità, ma facendoci insegnare in che mondo viviamo. Continuiamo a parlare di migranti e di seconda generazione: loro, i bimbi, non fanno nessuna distinzione. Sono fratelli e sorelle, amichette e amichetti. La stessa cosa dovrebbe avvenire sui temi della giustizia sociale e dei diritti. Le cose si ottengono perché ti spettano per diritto non perché è un amico di papà o di mamma. Questo aiuterebbe forse a costruire un Paese migliore. O almeno lo spero”.
Perché dici che non ti senti più un giornalista?
“Non mi sento più un giornalista perché non lavoro più in un giornale classico. Un quotidiano, un settimanale, un mensile. Tutti concetti superati credo dalla crisi editoriale ma anche dai fatti (social media, data e infographic journalism). Soprattutto in un momento di passaggio in cui, a causa della precarietà, non ha quasi senso essere contrattualmente un giornalista (nessuno assume oggi con l'articolo 1 del contratto giornalistico). Fare ufficio stampa, comunicazione politica e altri lavori laterali per sbarcare il lunario non credo sia far giornalismo. Ma questa è una mia opinione personale. Il giornalismo è un mestiere ben definito secondo me: stare in strada, fare il giro degli ospedali e dei commissariati alla ricerca di storie, costruire in mesi di lavoro una inchiesta, essere un cronista insomma. Un mestiere che oggi in Italia credo non faccia davvero nessuno. Per questo guardo con molta attenzione a quello che accade sia negli USA che nei paesi latinoamericani. C'è più voglia di affrontare il problema della fine dell'editoria e del giornalismo classico e di trovare soluzioni alternative e innovative”.
La linea della palma è disponibile online>>