New York è stata uccisa dal real estate. Questo lo possiamo constatare tutti ogni giorno, ma quello a cui forse non pensiamo è che l'intera scena cinematografica (e teatrale) newyorchese è profondamente cambiata a causa di un mercato immobiliare gonfiato che ha spazzato via quasi tutte le sale indipendenti, i cinema d'essai, i piccoli teatri off e off off Broadway. E con questi ha spazzato via un modo di fare cinema e di fare teatro che costituivano l'essenza della vita culturale e artistica della città.
Attori, registi, scrittori vivevano a New York e ne scrivevano, la riprendevano, la interpretavano, e anche se non erano famosi e avevano pochi soldi in tasca, i loro lavori venivano proiettati in una delle tante piccole sale della città, ci si metteva d'accordo con il gestore, si organizzavano proiezioni al volo, invitando amici, tirando dentro la gente per strada, improvvisando incontri e discussioni sul film. Le macchine da presa e le luci si potevano trovare in prestito o si barattavano con un aiuto sul set o altro, gli attori prestavano spesso il proprio lavoro per un progetto, o per un amico, gli scrittori potevano permettersi di scrivere senza dover guadagnare tanto solo per poter pagare un affitto esorbitante. Si poteva provare, ci si poteva fare dei favori per il piacere di farli, si poteva creare senza per forza doverci guadagnare sopra, perché New York era una città dove viveva gente comune mentre ora è “un luna park per ricchi”, come ha scritto qualcuno su un'autorevole rivista qualche tempo fa. Perché attori, registi e scrittori erano parte di una comunità artistica che viveva, creava, sperimentava, e soprattutto apparteneva, a se stessa e alla città.
Se è vero che la distribuzione e l'esercizio cinematografico sono cambiati in tutto il mondo e adesso ci sono nuovi modi per vedere il cinema, ed è vero che ora basta (tecnicamente, in teoria) una telecamerina da pochi soldi per girare un film, è anche vero che il lavoro del cinema e l'esperienza stessa del cinema sono un'altra cosa.
Tra gli attori newyorchesi che hanno visto cambiare la propria città “fino quasi a non riconoscerla più” c'è Nick Damici. Cresciuto nel West Side-Midtown quando quella parte della città era un altro mondo rispetto ad ora, Nick ha respirato le strade di New York per tutta la vita ed è diventato attore “solo dopo aver vissuto”, come racconta lui stesso; ha recitato in quei piccoli teatri, negli scantinati, nei film degli studenti della NYU, ma anche nelle grandi serie TV e in tanto, immaginifico, cinema di genere.
Per raccontare la sua storia, una delle tante storie che si incontrano in questa città, da dove cominciamo?
“In prima elementare ho interpretato una teiera, è stato il mio primo ruolo! – racconta ridendo – e da lì in poi in un modo o nell'altro ho sempre recitato, da ragazzo ero sempre coinvolto negli spettacoli scolastici, ma al tempo stesso ero un lettore vorace, e scrivevo racconti e mystery stories che mandavo alle riviste… ma non li hanno mai pubblicati, nemmeno uno!”.
Qual è stato poi il tuo percorso, come attore?
“Per anni ho fatto ogni sorta di lavoro, dal barista al fattorino della UPS, mi sono sposato, poi mi sono separato, ho fatto altri lavori ancora, ho vissuto insomma, come tutti. Poco prima dei trent'anni poi ho deciso che volevo seriamente fare l'attore, e mi sono messo a studiare recitazione, ho studiato all'HB Studio [una delle più importanti scuole di recitazione al mondo, fondata nel 1945 da Herbert Berghof, nda] ed è stato molto importante per me, non solo per imparare la tecnica ma perché per quattro o cinque anni ho studiato con Michael Moriarty, che era un attore e un insegnante straordinario, e mi ha incoraggiato a scrivere, diceva che tutti gli attori dovrebbero scrivere, e sono d'accordo, è stata una grande lezione”.
In quegli anni facevi principalmente teatro quindi?
“Si, tutti facevamo teatro, c'erano centinaia di piccoli teatri, palcoscenici, ci si ritrovava, si provava un pezzo, si affittava uno spazio per pochi soldi, poi si andava tutti insieme al bar a bere, parlare del nostro lavoro, scambiarci idee, inventare progetti…. New York era veramente un altro mondo”.
Poi sono arrivati il cinema e la televisione?
“È stato grazie a Michael Moriarty che ho avuto il mio primo ruolo in Law & Order. Era una serie importante, è andata avanti per anni, a New York ha impiegato centinaia, migliaia di attori. Ero pagato bene, e mi ha dato la possibilità di fare altre cose in seguito. Ma la televisione è una specie di macina, c'è poco tempo, dici la tua battuta e via”.
Provini, audizioni, aspettative, per un attore non è facile, soprattutto all'inizio, e in una città competitiva come questa, per te com'è stato?
“Io mi sono sempre considerato un lavoratore, vengo dalla working class di questa città, ho sempre lavorato e ho sempre continuato a farlo. Se pensi, ho lavorato in una palestra fino a due anni fa, e ho 55 anni! Ho sempre considerato la recitazione un lavoro. Se ottenevo la parte bene, se no andava bene lo stesso, ce ne sarebbero state altre e io avevo la mia vita. Non mi sono mai disperato per una parte non ottenuta o un provino andato male… Sin da ragazzo ho fatto tesoro del consiglio di David Niven ai giovani attori: assicuratevi di avere sempre un altro lavoro, perché con il mestiere dell'attore non si sa mai”.
Tu quale consiglio daresti a un giovane attore che arriva a New York oggi?
“Direi la stessa cosa, ma non sono sicuro che consiglierei di venire a New York ormai. Io amo New York, ma il prezzo da pagare è troppo alto oggi, costa tutto troppo, andare al cinema, a vedersi uno spettacolo. Non ne vale la pena”.
Eppure New York è sempre stata una città di attori, di grandi attori, una realtà che non può essere persa…
“Certo, New York ha avuto grandi attori, spesso erano caratteristi, alcuni tra loro hanno poi trasceso i loro ruoli e sono diventati attori straordinari: Al Pacino, Gene Hackman… non Marlon Brando, che non era di New York come molti invece pensano! Ma è cambiata la città, sono cambiati gli attori”.
Quali sono i tuoi attori di riferimento, anche semplicemente quelli che ti piacciono di più?
“Difficile rispondere, sono tanti… sicuramente Humphrey Bogart, Burt Lancaster, Barbara Stanwyck. Ecco, a me piacciono i bad guys, dove sono i bad guys adesso? I Charlton Heston, i Lee Marvin, i Jack Palance?! [Nick si appassiona parlando di loro] e sai perché erano grandi attori? Perché avevano avuto una vita, prima di fare gli attori. Palance parlava in quel modo perché è rimasto sfigurato per un'esplosione durante la guerra. John Wayne era un fascista, dicono che era un uomo di merda, OK, ma era John Wayne! Sullo schermo, ehi, era John Wayne! Aveva una presenza tale, come gli altri attori che ho nominato, e tanti altri ancora, perché dietro aveva sostanza, aveva una vita. Gli attori di oggi, non tutti ovviamente, ma in generale hanno una buona tecnica, ma dietro non c'è nulla. Sono tutti carini, regolari, è l'industria dello spettacolo che lo richiede. Un Jack Nicholson oggi non potrebbe mai e poi mai fare carriera, con quel viso, quell'espressione. Oggi sono tutti belli, piacevoli da guardare”.
[Nick si riferisce al cinema americano, ma tra me e me penso che per sua fortuna non vede i film o le serie TV italiani di questi anni, dove le belle facce sono imperativi, mentre la preparazione e le qualità interpretative sembrano essere un optional… Ma torniamo a noi.]
Attori di New York contro attori di Los Angeles? È un'antica disputa…
“Noi a New York ci abbiamo sempre scherzato su, e naturalmente pensiamo che gli attori newyorchesi siano migliori! [ride] Ma è vero che ci sono tradizionalmente delle differenze, diverse attitudini. Gli attori newyorchesi vengono di solito dal teatro, o sono comunque in qualche modo stage based, quindi hanno un diverso approccio anche quando fanno un film. E, nella mia esperienza, di solito hanno appunto una maggior esperienza di vita, magari arrivano alla recitazione un po' più tardi, forse perché vivere in questa città non è facile. Gli attori a Los Angeles invece sono attori a 19 anni! E magari perché i loro genitori sono nell'industria cinematografica. Non c'è nulla di male in questo, è solo che è diverso. Penso che la recitazione sia una cosa seria, bisogna studiare, fare esperienza, lavorare, sono membro dell'Actors Studio e credo nell'insegnamento e nella tecnica, Ma bisogna anche mettere qualcosa di sé e della vita nei personaggi che si interpretano, la differenza è tutta lì”.
Per te, cinema o teatro?
“Io preferisco il cinema, un po' perché sul set se sbagli puoi rifare, quando invece sali sul palcoscenico, lì sei da solo, non puoi sbagliare! E poi a me piace la vita del set. In quelle settimane, in quei mesi, si crea una famiglia, tanto più se si lavora con un gruppo di persone che è sempre lo stesso, io ho avuto la fortuna di farlo, ed è una dimensione che mi piace molto. Si sta sempre insieme, si viaggia. Ecco, per me è un po' come scappare con il circo! Poi però sono anche contento di tornare a casa..”.
Come dicevamo, tu sei anche uno scrittore, uno dei tuoi ultimi lavori è l'adattamento dal romanzo cult di Joe Lansdale, Cold in July (Freddo a luglio), per la regia si Jim Mickle.
“Era la prima volta che lavoravo ad una adattamento e devo dire che è un lavoraccio, e implica aspetti che non conoscevo e non mi aspettavo. Joe Lansdale è un grande. Ma capisco anche, avendo lavorato all'adattamento del suo libro ed essendomi confrontato con lui, perché gli studios non lo vogliono come sceneggiatore dei suoi romanzi! [conclude ridendo] Ma mi piacerebbe molto avere di nuovo l'occasione di lavorare con lui”.
Qual è la New York sullo schermo che ami di più?
“Wow, mi vengono in mente tantissimi film… ma direi il più classico di tutti, King Kong sull'Empire State Building, è la cosa più bella del mondo.”
C'è chi dice che oggi si gira troppo a New York, sei d'accordo?
“Non saprei, in realtà ciclicamente è sempre stato così. Oggi è così per ragioni fiscali, tutti girano qui, ma bisogna vedere cosa, e come, se sono lavori autentici. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta c'è stato un altro momento così, con il sindaco Lindsay, che era appassionato di cinema e voleva promuovere la città in questo senso. Oggi di solito le serie TV si girano a Los Angeles, come CSI New York, è tutto girato in California, e si vede, le strade di New York non le puoi ricostruire altrove, sono uniche, su questo non si può imbrogliare!”.
L'ultimo film che hai interpretato?
“Late Phases, di Adrian Garcia Bogliano (v. trailer in fondo), un film di lupi mannari girato Upstate. Io interpreto il vecchio cieco, è la prima volta che sono stato pesantemente truccato quasi a creare una maschera, per invecchiarmi e per il ruolo, è stato interessante”.
Cosa stai scrivendo in questo periodo?
“Scrivo sempre, al momento, insieme a Jim Mickle, una cosa che rimanda a Jack London. E poi sto scrivendo il sequel di Stakeland”.
Un personaggio che vorresti interpretare?
“Sherlock Holmes. Ho letto praticamente tutto, anche tutte le cose minori, e detesto quella roba alla Guy Ritchie, mentre adoro Ian McKellen (ndr interprete di Mr. Holmes diretto da Bill Condon), un attore straordinario. [Nick, con quel suo tono all'apparenza ruvido e la sua risata profonda, sembra immalinconirsi un po', poi prosegue sul filo dei suoi pensieri] Il fatto è che viviamo in un'epoca di mediocrità, it is what it is”.
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