Sicilia e violenza è un binomio che, ormai da molto tempo, è parte dell’immaginario collettivo. Ma da dove deriva questa credenza e come si è sviluppata? Su questa linea di pensiero si è indirizzata la ricerca del professore Mario Bolognari, dell’Università di Messina, con l’intento di analizzare il rapporto tra gli stereotipi che avvolgono la Sicilia e il modo in cui questa regione viene rappresentata nella cinematografia europea. La Voce di New York ha intervistato il professore Bolognari ad Oxford, in occasione del ‘Festival Letterario 2015’, dove lo stesso Bolognari ha presentato i dati della sua ricerca che analizza la cinematografia europea degli anni ’50 del secolo passato.
Professor Bolognari, perché per studiare la formazione degli stereotipi che

Il Prof. Mario Bolognari
interessano la Sicilia ha sentito il bisogno di interrogare la cinematografia?
La Sicilia è cinema, dice Giuseppe Tornatore. Non posso che concordare. Questa è una regione con una storia molto antica, regione con forti tradizioni popolari dove i sentimenti affiorano con tutta la forza della loro spontaneità. C’è molta disinvoltura nei comportamenti della gente, come se i siciliani avessero un’intrinseca capacità di esprimere visivamente le passioni dell’animo umano. E’ per questo che il mondo delle azioni cinematografiche trova nella Sicilia un perfetto palcoscenico.
Entriamo nel merito: come si sviluppa il rapporto tra la Sicilia reale e la Sicilia della pellicola?
Nel corso degli anni proprio per le caratteristiche tipiche di questa regione la Sicilia ha incoraggiato e favorito molte rappresentazioni cinematografiche. E di questo dovremmo essere fieri. Il problema sta nel fatto che la Sicilia e i siciliani vengono definiti in base a stereotipi che si sono consolidati nel tempo e che non rendono giustizia di quello che in realtà la Sicilia e i siciliani sono. Questi stereotipi oltre a contenere solo una mezza realtà rischiano di rimanere fissi e immutabili attraverso il potere della pellicola. La Sicilia è invece una realtà complessa e in continua evoluzione, ma questo viene raramente rappresentato. Si finisce quindi con il propinare al pubblico sempre gli stessi concetti che, per potere della pellicola, rischiano di rimanere fissi nella memoria di tutti noi.
E’ questo quello che esce fuori dalla sua ricerca?
Esattamente. Sin dal dopo guerra, prima ancora dei film sulla mafia, la Sicilia era descritta dal mondo del cinema come terra di contadini analfabeti, signorotti ignoranti, terra di superstizioni, uomini ferocemente gelosi delle proprie donne. Insomma una terra di tradizioni arcaiche, prigioniera di sentimenti e passioni a livello primitivo, priva di raziocinio. Un mondo culturale volutamente non capito che doveva essere eliminato per far spazio a un modello culturale tipico dell’industrializzazione del Nord. Questo modello era funzionale per rinvigorire l’immigrazione verso il Nord d’Italia e d’Europa. Una vera e propria contrapposizione tra i valori della nascente borghesia e il rurale mondo contadino. Il cinema non ha fatto altro che rispondere e adeguarsi, più o meno consapevolmente, a questa volontà politica di intendere la Sicilia.
Quale è secondo lei un film che meglio esprime questa tendenza?
Un esempio molto chiaro è il film ‘Divorzio all’Italiana’ di Pietro Germi del 1961. Durante quel periodo storico nella società italiana – a livello culturale e politico – stava maturando la cancellazione dell’articolo di legge del codice penale italiano che consentiva l’assoluzione per un marito che aveva ucciso la moglie per gelosia. Ebbene, la cinematografia italiana, nell’abbracciare la causa, affronta tale questione con il film tragi-comico di Germi. La scelta dell’ambientazione ricade sulla Sicilia, perché è in questa regione che Germi individua il luogo dove gli istinti di amore e odio vengono fuori nella forma più primitiva fino all’omicidio.

Una scena di “Divorzio all’italiana” con Marcello Mastroianni
Cosa ha da dirci sulla rappresentazione della Sicilia come luogo di violenza e sangue?
La Sicilia è stata troppe volte associata ad immagini di donne in lutto, corpi di uomini ammazzati e distesi in terra da cui escono rigagnoli di sangue e cosi via. Basti pensare al film ‘Il Padrino’ di Francis Ford Coppola, del 1972, dove la Sicilia si conquista a livello internazionale il titolo di ‘capitale della mafia’. Questa abbondanza e potenza delle immagini cinematografiche hanno finito con il rendere indelebile lo stereotipo che unisce la Sicilia al concetto di violenza.
E all’estero come viene dipinto il modo siciliano?
E’ molto evidente dai risultati della mia ricerca come la filmografia di lingua tedesca dimostri una tendenza a occuparsi della Sicilia con un’attitudine chiaramente colonialista. Nel film ‘Gitaren Klingen Leise Durch Die Nacht’, il regista Hans Dette narra la storia di un giovane austriaco che, nonostante sia rimasto folgorato in Sicilia da una sfrenata passione d’amore per una ragazza locale, la abbandona immediatamente dopo il suo rientro a Vienna. E’ un film, questo, dove la giovane siciliana, sedotta e abbandonata, umiliata e offesa sta a rappresentare la posizione di inferiorità di un’intera popolazione. Ne esce fuori una Sicilia, di cui vanno sfruttate le risorse di isola esotica dalle passioni incontrollate, ma da cui prendere le distanze. Altro film è ‘Il Richiamo del Sangue’, del 1948, tratto dall’omonimo libro dello scrittore inglese Robert Hichens. Qui la passione tra un giovane inglese e la sua amante siciliana viene macchiata dal sangue ad opera del padre della giovane che ammazza con ferocia vendicativa la coppia. Insomma, una Sicilia dipinta anche nella cinematografia estera come luogo dove forti passioni, difficili da controllare,convivono in modo pericoloso.
Lei sostiene quindi che anche la cinematografia ha contribuito all’aggravarsi della Questione meridionale?
Indubbiamente. La Sicilia ha subìto una politica di dipendenza dal resto dell’Italia e il mondo intellettuale, anche quello della cinematografia dell’ala progressista, non ha contrastato questa tendenza. Una cinematografia che è da sempre stata in sintonia con la mancanza di una politica di sviluppo per il Sud e che ha dimostrato una volontà intellettuale di fare uso degli stereotipi di questa regione piuttosto che di eroderli.
Secondo lei che impatto ha avuto o può avere sulla società siciliana la creazione e diffusione di questi stereotipi?
L’antropologo americano, Michael Herzfeld, ha messo in evidenza come gli stereotipi rischino di attaccarsi alla realtà sociale e alla fine di autorealizzarsi. In parole semplici, c’è il rischio che i siciliani stessi finiscano con il rappresentarsi o immaginarsi come gli altri li dipingono, dimenticando la ricchezzadi molti altri valori caratteristici di questa società.