È il 1989. A Berlino crolla il muro e si ridisegna un nuovo quadro geopolitico mentre la Calabria batte il record per numero di omicidi e rapimenti. A Locri, non esisteva una procura antimafia e c’erano solo quattro magistrati. Il 23 ottobre di quell’anno, Giuseppe Tizian, “funzionario bancario integerrimo”, venne ucciso a colpi di lupara. L’anno prima, il padre di Giuseppe Tizian, titolare di un mobilificio, è vittima delle intimidazioni della ‘ndrangheta.
Inizia da quegli anni, il viaggio di recupero nella memoria storica della famiglia e dell’Italia, di Giovanni Tizian, giornalista trentenne dell’Espresso e autore di Gotica. ’Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea (2011) e La nostra guerra non è mai finita (Mondadori, premio Gian Piero Orsello – Città di Civitavecchia, 2013).
Dell’omicidio di suo padre, ucciso quando Giovanni aveva solo sette anni, gli raccontano l’essenziale. Ricordi che prima erano materia nebulosa, ma che poi riemergono insieme alla voglia di raccontare la sua terra, l’emigrazione, la storia di suo padre e l’Italia del Sud.
A 10 anni Giovanni lascia la Calabria per trasferirsi, insieme alla sua famiglia, a Modena, nelle terre della resistenza. Dopo gli studi universitari, la necessità di scrivere è dettata da un’esigenza di fare luce su una verità mai restituita e su un fenomeno che prende sempre più piede: l’infiltrarsi e l’espandersi della ‘ndrangheta nel Centro-Nord, in quelle terre rosse e ricche, apparentemente estranee alla parola mafia.
Le sue prime inchieste, con cui ha vinto il premio per i giornalisti di provincia “Enzo Biagi” vengono pubblicate su La Gazzetta di Modena. Per il mensile Narcomafie e il portale stop ‘ndrangheta racconta le connessioni delle organizzazioni criminali tra Nord e Sud, la corruzione e la miopia della classe dirigente. Giovanni entra nelle pieghe della storia degli affari sporchi del mondo delle slot machine, degli appalti gestiti sotto la protezione della ‘ndrangheta. Il suo stile, tra il giornalismo d’inchiesta classico e l’approccio diaristico, documenta tutto con precisione e la passione di un cronista che non si ferma mai davanti ai faldoni archiviati e i no delle procure.
Prova ancora un brivido, Giovanni, quando sente quella frase che gli cambiò la vita in quel dicembre di tre anni fa: “O la smette o gli sparo”. Quella minaccia, pronunciata durante una conversazione tra Guido Torello, faccendiere piemontese al telefono e Nicola Femia, boss della ‘ndrangheta arrestato, ha convinto le forze dell’ordine ad assegnare la scorta a Tizian e lo stesso Giovanni a costituirsi parte civile nel processo Black Money, a carico di una presunta organizzazione che faceva profitti con il gioco illegale.
Giovanni, con la sua faccia pulita e la sua schiena dritta non si ferma. Grazie alle sue inchieste e i suoi libri, nel 2012, gli sono state assegnate la menzione speciale al premio «Biagio Agnes» e la Colomba d’oro per la pace. Sotto scorta, continua e mettere nero su bianco le vicende e le faccende di un’Italia corrotta e collusa. E lo fa con la passione di sempre e il coraggio di chi non si vuole arrendere e di chi crede nel giornalismo come impegno civico.
Dallo stesso coraggio nasce l’ultimo suo libro appena pubblicato Il clan degli invisibili (Mondadori 2014), un racconto che vuole smascherare il nuovo volto della criminalità organizzata dalle radici ancorate al Sud, ma ormai prodotto globale in espansione.
Giovanni, racconta a La VOCE che il suo è un giornalismo che vuole fare luce sui fatti. “La ferita con il passato non si è ricucita ma fa male”, dice Giovanni. E a suo figlio spera di raccontare un giorno la storia di sua nonna Amelia, “coraggiosa, dolce, testarda, che ha preso per mano una intera famiglia e l'ha fatta rinascere”.
Giovanni, partiamo dalla cronaca giudiziaria degli ultimi giorni. Come commenti la sentenza del tribunale di Napoli sulle minacce ai giornalisti Roberto Saviano e Rosaria Capacchione durante il processo Spartacus?
L'esecutore materiale condannato, i mandanti assolti. Si può riassumere così la sentenza dei giudici di Napoli sulle minacce a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione. Il verdetto da un lato riconosce che i professionisti, complici del clan, possono utilizzare metodi legali per esprimere intimidazioni e minacce, ma dall'altro lascia un vuoto di verità. O vogliamo davvero credere che un avvocato indagato in altre inchieste per vicinanza al clan, legale dei boss, abbia agito per conto suo? Può essere, ma conoscendo un pochino le logiche che guidano le organizzazioni mafiose mi pare difficile. La cosa più importante però è che il clan di Gomorra è a pezzi. Lo Stato ha reagito bene, colpendo i vari livelli della mafia Casalese. Certo non si può abbassare la guardia, e c'è ancora il livello della borghesia mafiosa ancora non del tutto smantellato. Va colpito. e le indagini attuali puntano proprio a quello. Saviano e Capacchione hanno dato un grande contributo alla lotta della procura. Hanno smosso le coscienze. Dopo aver letto i loro articoli e i loro libri, nessuno ha avuto più l'alibi del "io non sapevo". Per questo auguro a entrambi di trovare presto un po' di tranquillità, quella tranquillità negata dai mafiosi per tanti anni.
Il clan degli invisibili nasce piú come romanzo autobiografico che come giornalismo d’inchiesta? O entrambi?
È un ibrido, è un libro che nasce dall'esperienza di cronista, dai fatti di cronaca raccontati, analizzati, o semplicemente letti sui giornali, cui si aggiungono alcuni elementi personali, intimi. La scelta di cambiare registro narrativo, non più un saggio quindi, è frutto di un'osservazione: l'interesse verso certi argomenti sta scemando anche perché spesso l'inchiesta pura diventa pesante da leggere, perciò ho pensato che creare un racconto unico che sintetizzi i concetti chiave della 'ndrangheta del terzo millennio avrebbe agevolato la comprensione del fenomeno, trascinando il lettore dentro i meccanismi, dentro la storia.
Anche il tuo precedente libro La nostra guerra non é mai finita alterna il racconto diaristico al giornalismo d’inchiesta. Tutto parte dalla tua storia personale e dalla necessità di ricucire una ferita?
Sì, anche se il precedente libro è comunque meno romanzo, e i personaggi citati hanno i nomi reali. Tutto parte dalle origini, dalla Calabria da cui sono fuggito da piccolo. Una ferita ancora aperta perché su quei fatti, in particolare l'omicidio di mio padre, non c'è ancora una verità giudiziaria.
Chi sono “gli invisibili” di cui parli nel libro?
Sono uomini e donne al dì sopra di ogni sospetto che aiutano le organizzazioni mafiose. È la borghesia complice dei clan. Politici, servitori infedeli dello Stato, industriali, imprenditori, professionisti, manager. Ma anche boss che hanno dedicato tutta la loro vita a mimetizzarsi nei salotti buoni della società, diventando appunti invisibili.
I tuoi articoli pubblicati ne La Gazzetta di Modena hanno, per la prima volta, fatto luce sui rapporti tra la ‘ndrangheta e il Centro-Nord. Prima di allora questo argomento era un tabú. Rimane peró, ancora oggi, una sorta di non accettazione del fenomeno mafia al Nord, sia dalla classe politica che dalla societá civile. Perché secondo te?
Perché non creano allarme sociale. Non mettono bombe, raramente sparano, raramente scorre il sangue sulle strade delle città del Nord. Ciò che non spaventa, non terrorizza, non fa parlare di sé. Il riciclaggio e l'inquinamento dell'economia, che porta fuori dal mercato gli imprenditori onesti, estromessi dalla concorrenza sleale delle imprese mafiose o gestite dai corrotti, non sono visti con terrore, non creano allarme sociale. Perciò sono fenomeni accettati, e spesso utilizzati perché conviene. È una questione di convenienza. Affidarsi agli imprenditori in odore di mafia spesso conviene, si vincono appalti, si risparmia sullo smaltimento dei rifiuti, si risparmia sui contributi ai lavoratori, così come chiedere voti ai padrini assicura spesso la vittoria.
Mafia e ponte con gli Stati Uniti. Se ne parla di meno, lasciando credere che sia stata sconfitta.
Purtroppo no. Una recente operazione sull'asse Calabria-New York lo dimostra. Ci sono alleanze nuove che in passato non c'erano. Cosa nostra americana insomma ha conosciuto e stretto patti con la 'ndrangheta.
Quando, da adolescente, hai lasciato la Calabria, eri consapevole che stava cominciando una “guerra” per te? Cosa ricordi di quel momento?
Pochi e confusi ricordi. Non ero consapevole della guerra in corso. Solo molti anni dopo mi resi conto del peso che mi sarei dovuto portare dentro per tutta la vita.
Quando e perché hai deciso di fare il giornalista. Passione o anche un modo per restituire una veritá alla vicenda che ha colpito la tua famiglia?
Durante i primi anni dell'università. Iniziai una collaborazione quasi per gioco, ma poi mi piacque moltissimo. Quindi all'inizio non avevo intenzione di scrivere e di occuparmi di mafie al Nord. Poi però un libro di uno storico ha cambiato la mia prospettiva. Leggendo quel testo mi sono reso conto che dove vivevo erano presenti numerosi personaggi che avevano distrutto la mia terra. E a quel punto ho capito che le mie conoscenze potevano essere utili all'Emilia. Così ho iniziato a proporre inchieste sul tema. Parallelamente avevo già cominciato il percorso con la mia famiglia di recupero della memoria. Ricordare mio padre, raccontarne la storia, perché siamo convinti che la sua figura rappresenti l'ingiustizia subita da tantissime vittime che come lui sono state inghiottite dall'oblio. Dimenticati.
Tu porti avanti un certo tipo di giornalismo tra l’inchiesta e l’impegno civile. Cosa significa oggi stare in trincea ai tempi dei new media? Quale giornalismo é il tuo modello di riferimento?
L'inchiesta è il modello di giornalismo che preferisco. Ma con la crisi dell'informazione su carta è un genere che si fa sempre più raro. È un problema di costi, per fare un'inchiesta sono necessari investimenti e risorse, oggi sempre meno. In più il lettore predilige le notizie brevi e meno l'approfondimento. Basta vedere i link negli articoli online.
A fare le inchieste di qualitá, siete sempre in pochi. Questo per un problema di scelte editoriali (anche economiche) o perché con il web l’informazione é cambiata?
I giornali hanno risorse ristrette e il web impone un tipo di giornalismo mordi e fuggi.
Dal 2011 sotto scorta. Come é cambiata la tua vita da quel giorno?
Fine della privacy, paura per ogni rumore e timore che la tua tranquillità possa finire da un momento all'altro. Non è vita. È sopravvivere aspettando il giorno dopo.
Avrai avuto dei momenti in cui, mollare tutto, sarebbe stato piú facile?
Ci penso spesso. Ma spero che mollino prima gli altri, quelli che in questo Paese non dovrebbero avere diritto di cittadinanza.
Con i tuoi articoli e le tue inchieste, ti senti di aver restituito la veritá agli eventi che hanno toccato la tua vita familiare e ricucito la ferita?
Più che con i miei articoli, con il libro che è una tappa fondamentale del percorso intrapreso molti anni fa. Un percorso fatto assieme ad altri familiari e durante il quale ho conosciuto persone magnifiche. La ferita non è ricucita, ma fa meno male.
Sei cresciuto a Modena ma sei legato alla Calabria. I ricordi di una terra che ti ha dato molte lacrime. Senti ancora dei sentimenti contrastanti o ti sei riappacificato con i luoghi della tua terra?
Sentimenti contrastanti, sento il profumo del mare che mi rapisce, poi il sogno si scioglie negli sguardi indifferenti di chi ancora fa finta che mio padre sia morto per caso.
Con il processo Black money, la societá civile ha fatto sentire la sua voce, appoggiandoti e mostrando solidarietá. Questo risveglio ti dà speranza?
Non saprei. Ringrazio tutte le associazioni e i ragazzi che ogni venerdì affollano l'aula del tribunale. Ma allo stesso tempo vedo che fuori dall'aula c'è una città immobile, silente, che non riesce a pronunciare la parola 'ndrangheta.
L’antimafia é spesso un concetto troppo usato come mantra da una certa classe politica. Sei d’accordo?
Un ottimo scudo per ripulirsi dopo una carriera di complicità.
Qual é la storia piú bella che un giorno racconterai a tuo figlio?
Gli racconterò della forza di una donna di nome Amelia, coraggiosa, dolce, testarda, che ha preso per mano una intera famiglia e l'ha fatta rinascere. Quella donna era mia nonna, la sua bisnonna, e senza di lei forse non ci sarebbe stato lui.

La copertina del libro Il Clan degli Invisibili, di Giovanni Tizian.
La quarta di copertina del libro Il Clan degli invisibili
Ne Il Clan degli Invisibili Giovanni Tizian riesce a delineare, attraverso il vissuto autobiografico e la conoscenza diretta di ambienti e personaggi, un quadro realistico e insieme terrificante dell’attuale «età dell’oro» della ’ndrangheta e del prezzo pagato ogni giorno da chi, ascoltando solo la voce della propria coscienza, sente l’irrinunciabile dovere di raccontarla. San Michele, Calabria, metà anni Novanta. Nella piazza del paese, sei ragazzi giocano a pallone con una testa umana mozzata. Fedeli al destino che i padrini hanno scritto per loro crescendoli a pane e violenza. Saranno i boss della nuova ’ndrangheta, quella che, in giacca e cravatta, traghetterà la «famiglia» dall’Aspromonte nel mercato globale. Gigi «Carne di porco», consulente finanziario a Milano. Ciccio «il Bianco», proprietario terriero in Colombia. Giampaolo «Bulgari», immobiliarista in Costa Azzurra. Francis «u Spice», titolare di una catena internazionale di ristoranti. Simone «u Dutturi», uomo politico. E Demetrio, «il Signorino», rimasto in Calabria a muovere i fili dell’organizzazione. Pur lontani i sei compari sono indissolubilmente legati dal giuramento «d’onore» al clan De Pasquale, una cosca che si è trasformata in un comitato d’affari e gestisce i propri traffici con la spietata arroganza di chi si sente intoccabile, grazie alla connivenza o alla complicità di persone insospettabili, manager di spicco, e persino «servitori dello Stato».
Poi, un giorno, accade qualcosa. In una Bologna divenuta preda, ancora inconsapevole, della criminalità organizzata, Libero e Luigi, due giornalisti che hanno fatto dell’impegno civile una ragione di vita, con le loro inchieste sulle infiltrazioni mafiose al Nord riescono a tracciare la mappa dell’impero De Pasquale e minacciano di strappare la maschera dal volto degli Invisibili.
La risposta è immediata e terribile: il clan, per l’occasione, non esita a rispolverare i vecchi metodi e a far scorrere il sangue. Libero, che assiste impotente all’omicidio dell’amico, si trova a dover compiere una scelta drammatica ma, in qualche modo, obbligata: cedere al dolore, alla paura, e rassegnarsi all’immutabilità delle cose, oppure continuare a denunciare il lato oscuro del potere, accettando una sfida mortale in cui il confine tra sete di vendetta e desiderio di giustizia diventa sempre più labile e la posta in gioco sempre più alta.
In un crescendo di colpi di scena, muovendosi fra Bologna, la Calabria e Marsiglia, Libero trova nuove piste e insegue gli assassini, affrontandoli a viso aperto. A sostenerlo, in questa guerra ormai solitaria, l’amore e il coraggio di due donne: Francesca, sorella premurosa oltre che colonnello dell’Antimafia, e Daniela, l’amica di sempre.