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June 8, 2014
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Speciale Open Roads / Piccola patria: intervista al regista Alessandro Rossetto

Chiara BarbobyChiara Barbo
Time: 4 mins read

Luisa e Renata sognano di andarsene dal paese dove vivono e dove passano le giornate a pulire le camere di un albergo, tra capannoni industriali e campi coltivati. Le due ragazze, amiche e nemiche, tra rabbia livida e desiderio bruciante di vivere, si muovono in un Nordest raccontato con la precisione e la spietatezza dello sguardo di chi lo conosce bene e, attraverso il racconto cinematografico, riesce a renderlo “mito”. Un ricatto, un amore tradito, una violenza, si consumano tra il perbenismo becero e la morbosità strisciante della provincia, tra  raduni leghisti e immigrati che non possono e non potranno mai appartenere.

Piccola patria è uno dei film sicuramente più autoriali presentati quest'anno a Open Roads, uno spaccato di quella provincia italiana un tempo ricca e vivace, che più ha vissuto la crisi economica e culturale degli ultimi anni, tra spinte indipendentiste tanto vaghe quanto feroci, dietro all'apparente calma sonnolenta delle sue pianure, dei capannoni abbandonati e delle montagne che si stagliano all'orizzonte.

Il regista Alessandro Rossetto, è uno dei documentaristi più interessanti di questi anni (la sua era stata una presenza importante al New York Documentary Film Festival nel 2010). Seppure rimanga l'osservazione della realtà che è propria del documentario, Rossetto ha deciso con questo film di passare alla fiction. 

Perché adesso e in particolare perché attraverso la storia di queste due ragazze, Renata (Roberta Da Soller) e Luisa (Maria Roveran), figlie del Veneto più profondo, e di Bilal (Vladimir Doda), immigrato albanese loro coetaneo?

Non credo nella distinzione tra documentario e fiction, dal punto di vista del regista l’“idea film” non cambia. Lavorare con attori e il controllo delle vicende mi interessava da tempo e volevo sperimentare uno specifico metodo d’azione nella finzione. La storia è nata per accumulazione di ricerca, partendo dai temi della deflagrazione della crisi economica nelle famiglie e dei corpi e destini dei giovani in pericolo. Anche l’abbandono della prima giovinezza era fra i bersagli narrativi.

Piccola Patria è un film ricco di impulsi vitali così come di impulsi rabbiosi e distruttivi, con la noia e il sommerso della provincia veneta. Quanto di questo c'era già in sceneggiatura e quanto invece è stato costruito con la regia, e con gli attori? 

Era nella sceneggiatura e si è modellato su luoghi e corpi, così ha superato i confini territoriali e il racconto è diventato universale. Diciamo che la regia ha usato quanto a disposizione per addensare e chiarire gli impulsi e fonderli profondamente con il territorio, un processo complesso e avvincente. Il film ha una strana fedeltà alla sceneggiatura, ne mantiene la strutturazione e tutti i personaggi sono nati sulla carta, ma ogni parte del film, ogni scena, è passata da uno stravolgimento sul campo, in stretta collaborazione con gli attori. 

Come hai scelto gli attori e come hai lavorato con loro? 

I ruoli erano definiti, cercavo gli interpreti e non cercavo non-attori. Il dialetto necessario nel film mi ha portato verso attori veneto speaking e che offrissero garanzie anche per un lavoro di ricerca e sperimentazione. La revisione della sceneggiatura durante le riprese li ha messi in disequilibrio, i più giovani hanno lavorato senza conoscerla, il rapporto con la realtà nella quale calarsi andava creato ogni volta, abbiamo quindi operato su più piani e in diversi modi. Vari tipi d’improvvisazione si sono succeduti a giornate su scene invece completamente scritte e blindate, parallelamente ogni attore ha fatto un lavoro personale per offrirsi pronto alle improvvisazioni più estemporanee. Abbiamo seguito particolari percorsi per situazioni diverse, affrontando le scene domestiche su tempi lunghi e predisponendoci a lenti avvicinamenti quando la finzione andava calata nella realtà”.

È stato difficile trovare un budget e la giusta attenzione in Italia per un film per molti aspetti poco italiano, non semplice e non scontato come Piccola Patria? 

Sì, è stato difficile, ma forse non più che in altre occasioni. Ho dovuto operare ben al di là delle mansioni di regista, altrimenti il film non avrebbe visto la luce. Naturalmente progettandolo non ho pensato alla sua non-italianità, alle difficoltà o a cercare di non essere scontato. Più arduo è gestire la marea di lavoro che prevede operare in più ruoli e passaggi, anche strettamente produttivi, prendendo grossi rischi personali.

Il film viene presentato ora a New York, dopo l'anteprima nella sezione Orizzonti al Festival di Venezia lo scorso anno, e dopo altri importanti festival internazionali, primo fra tutti quello di Rotterdam dove ha avuto ottimi riconoscimenti da parte della critica internazionale. Cosa racconteresti, in un tuo documentario, o in un film, di New York, della New York che conosci o che è nel tuo immaginario? E come la racconteresti? 

Vent’anni orsono ho realizzato un documentario radiofonico a New York, storie di lavoro, immigrazione e teatro si fondevano fra Astoria e Arthur Avenue, medito da tempo di dare immagine a quei suoni.

 

Piccola patria (Small Homeland) sarà proiettato al Lincoln Center per Open Roads domenica 8 giugno alle 15.30.

 

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Chiara Barbo

Chiara Barbo

Scrivere di cinema o scrivere il cinema? Possibilmente tutti e due. Dalla critica cinematografica alla sceneggiatura passando per la produzione, al di qua e al di là dell'oceano, collaboro con La VOCE di New York e con Vivilcinema, con la Pilgrim Film e con Plan 9 Projects. E anche con altri. Ma per lo più penso, immagino, ricerco, scrivo, organizzo in modalità freelance. Insieme a tanti altri, faccio parte della giuria del David di Donatello. New York è stata una scelta. New York è intensa, vitale, profonda e leggera, pacchiana e intellettuale, libera, creativa, è difficile, è bellissima, ed è la città più cinematografica del mondo.

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