«Non ho fatto altro che il giornalista». Il resto… libri tradotti in inglese e giapponese, articoli e reportage sulle maggiori riviste internazionali, romanzi premiati, scatti in mostra a Strasburgo…è solo un corollario a settant’anni di cronaca vissuti in giro per il mondo. Perché Giuseppe Quatriglio – Peppino per chi gli vuol bene, per amici che si chiamavano Guttuso, Attardi, Bufalino, Bonaviri e Sciascia – è un giornalista vecchia maniera, di quelli di cui si è perduto lo stampo: macchina da scrivere portatile, una Nikon a tracolla, taccuino in mano. Erano gli anni in cui si dettava per telefono ai dimafoni del giornale, magari rinchiusi per ore in una cabina telefonica che diventava una fornace d’estate ; o in cui si aspettava un resoconto Ansa per ore e poi si smontava una pagina per ricomporla, carattere dopo carattere, il giornalista accanto al tipografo. Perché Peppino Quatriglio (nostro collaboratore, ndR) di anni tra poco ne compirà novanta – è nato il 30 ottobre del 1922, a Catania – e ,di questi , quasi la metà li ha passati al Giornale di Sicilia. Dove nacque, «giornalisticamente parlando», con la Terza pagina.
Giuseppe Quatriglio oggi
«Anche se quando sono arrivato al Giornale di Sicilia, nel 1944, la Terza pagina non era stata ancora ripristinata – sorride lui, memoria di ferro per date e nomi, un tono commosso nella voce -. Era il dopoguerra, i pochi articoli culturali venivano di solito pubblicati a pagina tre, di un giornale che di pagine ne aveva quattro. Io mi ero appena laureato in giurisprudenza, andai a bussare in redazione, volevo fare il giornalista, ma dopo andai a fare il corso per allievi ufficiali. Quando il quotidiano riprese le pubblicazioni, dopo la pausa bellica, arrivò a casa un fattorino, il commendatore Ardizzone mi voleva parlare. Gli ero piaciuto, mi assunse subito come redattore, firmandomi un foglio per il praticantato mai fatto».
Un catanese trapiantato a Palermo. Aveva solo otto anni quando arrivò nel capoluogo.
«Mio padre era ferroviere, lo trasferirono a Palermo con la famiglia: io frequentavo la quarta elementare, l’insegnante riunì tutta la classe per salutare l’alunno che se ne andava, disse “se ne va il migliore”. Io piansi per tutto il corso Umberto, rischiando di finire sotto un tram ».
Primo impegno, nel ’46 inviato alla Fiera di Milano, la prima del dopoguerra, poi nel ’47 in treno a Parigi.
«Andai dal commendatore Ardizzone per dirgli che volevo partecipare a questo viaggio, lui mi rispose di passare dal cassiere e farmi dare il denaro necessario, “mi ripagherà con gli articoli”, disse. A Parigi conobbi Jean Paul Sartre, al Cafè de Flore – anni dopo ci ritornai ed ebbi in regalo un portacenere-, mi chiese di far “sapere in Italia che il suo Esistenzialismo era interpretato male dai giovani parigini”».
1949, nella Germania occupata dalle quattro Potenze, i suoi reportage oltre che dal Giornale di Sicilia, sono pubblicati dal Corriere di Napoli e dal Corriere del popolo. L’anno successivo a Port Said e a Beirut, e, successivamente, anche in treno da Palermo a Stoccolma, dove incontra lo scultore Carl Milles, e di lì, ancora in treno, verso il Circolo polare artico. Nel 1951 Quatriglio approda negli Stati Uniti con una borsa di studio Fulbright, nel ’58 assisterà al lancio di un missile Atlas da Cape Canaveral (e ne scriverà sulla Settimana Incom illustrata), nel ’59 a Mosca vedrà le salme affiancate di Lenin e Stalin.
«Incontrai Alida Valli a Los Angeles, ed Enrico Fermi a Chicago. Volevo conoscere il grande fisico, ma nessuno mi aiutava, dicevano tutti che Fermi era insensibile agli inviti, allora telefonai all’Università dove insegnava, me lo passarono subito, gli chiesi un’intervista e lui rispose “non ho nessuna scoperta da annunciare al mondo”. Bene, dissi, mi inventerò l’intervista, mi diede allora un appuntamento. Ho conosciuto un uomo straordinario, schivo, curioso; era già malato di cancro, parlava poco e viveva solo, talmente solo che non trovammo nessuno che ci scattasse una foto insieme. Non volle che prendessi appunti, appena uscito dalla sua stanza mi sedetti su un gradino della vicina scala e scrissi tutto, di corsa, cercando di non dimenticare nulla».
Oggi ci sono internet, il computer, i tablet, wikipedia.
«Ieri la mente, la memoria, i libri, e l’archivio dei nostri pezzi. Io usavo una macchina da scrivere comprata in America, otto copie con la Onion paper, sette da inviare e una da tenere per me. In redazione spesso il pezzo veniva riscritto e aggiornato più volte, uscivo dalla redazione alle tre di notte e ogni volta facevo una lunga passeggiata in macchina per svaporare».
Leggerezza ed eleganza. E una punta di savoirfaire: altri tempi e Giuseppe Quatriglio seguiva il Festival del cinema. Dieci anni tra divi doc, allora Taormina era seconda solo a Venezia.
«Al San Domenico incontrai Cary Grant che uscito dalla sua stanza al primo piano dell’albergo, non trovava la scala. Scendemmo insieme e nella hall ci fecero alcune foto; anni dopo vidi su Time Magazine una immagine dell’attore con un bambino al suo fianco, gli scrissi allora inviando una foto fatta insieme e ricordando la trasferta taorminese. Indirizzai la lettera a “Cary Grant – Hollywood – California”. Dieci giorni dopo mi arrivò la sua risposta, “Dear friend, thank you for your picture”».
Sull’isola di Stromboli per gli amori di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, a Vulcano per la gelosa Anna Magnani. La guerra dei vulcani.
«Ingrid Bergman sorrideva e basta, Rossellini parlava del film e del co-protagonista, un pescatore che aveva trovato in Calabria. A Vulcano incontrai Anna Magnani assieme a un gruppo di colleghi. Non era elegante fare domande imbarazzanti. Ne fece una un giornalista genovese, che chiese all’attrice come era la sua vita senza Rossellini. Lei alzò gli occhi al cielo, accarezzò il cane lupo che aveva accanto, e disse “mi sei rimasto solo tu”. Non le chiedemmo altro. A Stromboli il traghetto arrivava soltanto una volta alla settimana. Nell’isola non c’erano luce né telefono, si viveva udendo notte e giorno il brontolio sordo del vulcano».
E i gattopardi siciliani? Quelli del pensiero e della cultura?
«Mi guardo intorno, posso avere soltanto ricordi, sono tutti scomparsi e io ho dentro una grande tristezza. Mario Bardi, Salvatore Fiume, Giuseppe Migneco, Aligi Sassu e tanti altri. A Roma Renato Guttuso mi riceveva nel suo salotto dove ogni mattina teneva una sorta di cenacolo, con il cameriere Benito che serviva whisky con pezzetti di prosciutto crudo appena affettato. Il pittore disegnava velocissimo sui fogli di carta che aveva davanti, e alle 12,30 esatte raggiungeva Mimise per il pranzo: tutti allora cercavano di impossessarsi di quei disegnini lasciati sul tavolo. Emilio Greco viveva lontano e aveva sempre un libro o una incisione per me, Ugo Attardi aveva lo studio a Trastevere all’ultimo piano di un antico monastero da cui si vedeva tutta Roma, per raggiungere Fabrizio Clerici dovevi salire 100 scalini, con Leonardo Sciascia bronho avuto una lunga consuetudine di vita, con lui ho visitato, da clandestino, le carceri dell’Inquisizione nel trecentesco palazzo dello Steri, a Palermo. Sono stati tanti gli amici artisti, ed oggi mi sento un sopravvissuto».
E il Giuseppe Quatriglio fotografo, quando è nato?
«Per dovere, anche perché le mie foto non sono mai nate da sole, hanno sempre accompagnato un articolo, illustrato uno scritto, dato vita ad un ricordo. Mai sole e mai per caso».
E arriviamo al Quatriglio scrittore, storico e romanziere. «Mille anni in Sicilia» pubblicato da Marsilio ha avuto sette edizioni italiane, è stato tradotto in inglese e giapponese, «L’uomo-orologio» pubblicato da Sellerio vince il «Mondello» e il «Vittorini».
«Quando scrivi un libro, non deve mai restare in un cassetto, rischi che esca a nome di qualcun altro. Il più bel commento ai “Mille anni” lo ebbi da Fernand Braudel. Mi scrisse che quella era “la maniera giusta per presentare al grande pubblico i principali risultati della ricerca erudita”. Oggi scrivere è una necessità, anche una lettera, un commento, una sola pagina al giorno. Accarezzare i ricordi serve soltanto se li metti sulla carta».