A sinistra Alex Bellini
Ha attraversato gli Stati Uniti di corsa, da Los Angeles fino a New York. Settanta tappe in settanta giorni, ognuna da settanta chilometri. Poi finalmente l’arrivo nella Grande Mela, dove ad aspettarlo c’erano la moglie Barbara, la figlia Sofia e Margherita, un piccolo fagottino di appena una settimana che non vedeva l’ora di essere stretto per la prima volta tra le braccia del suo papà. Alex Bellini, classe 1978, è uno che di avventure ne ha già fatte tante. Ha iniziato con la Maratona delle Sabbie nel deserto del Marocco (2001) e con l’Alaska Ultrasport Extreme, dove ha trainato una slitta per 600 chilometri in mezzo alla neve (2002). Ha proseguito con le traversate oceaniche a remi in solitaria: prima l’Atlantico (nel 2005), poi il Pacifico (nel 2008). La scorsa estate, infine, ha deciso di unire via terra queste due distese di mare partecipando alla Los Angeles–New York Footrace 2011, la gara transcontinentale organizzata e promossa dall’ultra-maratoneta Serge Girard con lo scopo di far rivivere il mito della prima corsa podistica attraverso gli Stati Uniti, la Trans-American Footrace del 1928. L’impresa, sponsorizzata dalla casa automobilistica Jeep, si è svolta dal 19 giugno al 27 agosto: un viaggio lungo e impegnativo durante il quale Alex ha macinato circa 5.000 chilometri prima di vedere – meta e miraggio assieme – il tanto sospirato skyline di Manhattan.
Ora Alex è in Italia, dove si sta prendendo cura della sua famiglia e del suo corpo, provato da uno sforzo così intenso. Lo abbiamo raggiunto al telefono per chiedergli:
Alex, cosa rimane dopo un’avventura così grande?
«Dal punto di vista fisico, rimangono diversi segni e problemi da risolvere. Devo ancora recuperare tutta l’energia e far fronte a processi di usura delle gionocchia e delle caviglie. È stato massacrante. Ma sono cose che con il tempo passeranno. Ciò che resterà, invece, è la soddisfazione di aver coperto a piedi 5.000 chilometri di immaginario collettivo, un Coast to Coast che tutti sognano in qualche modo di fare. Soprattutto, è stato un momento di grande crescita personale, poiché prendo sempre le mie imprese come occasioni per conoscermi meglio e viaggiare alla ricerca di me stesso. È un approccio che non mi stanco mai di raccomandare: il viaggio ci consente di esplorare angoli di noi che altrimenti rimarrebbero nascosti. È scoperta, avventura, presa di coscienza della propria forza individuale».
Quali sono stati i momenti più belli?
«È difficile rispondere così su due piedi. Ho corso per 70 giorni di fila per una media di 10-12 ore al giorno. La sveglia era alle 3.30 del mattino si partiva alle 5. Ogni tappa mi ha dato qualcosa di diverso: conoscevo già alcuni punti della costa Est e della costa Ovest, ma non avevo idea di cosa ci fosse in mezzo. Beh, è stato come attraversare ogni giorno un pianeta diverso, dai deserti del Nevada alle statuarie montagne del New Mexico. Qui, in particolare, ho vissuto emozioni molto intense perché i paesaggi mi ricordavano i monti della mia Valtellina. Anche il passaggio a Est è stato forte: dopo aver corso per giorni nel nulla, non ero più abituato a muovermi in uno spazio urbano. In generale, posso dire di aver soddisfatto tutta la mia curiosità su questo grande Paese».
Ti è mai balenata in testa l’idea di lasciar perdere?
«No, non ho mai pensato di tirarmi indietro, anche se la corsa mi ha richiesto davvero il 100%. Ogni centimentro del mio corpo è stato completamente spremuto. Per fortuna in passato ho fatto esperienze che mi hanno fortificato molto il carattere, come le due traversate degli oceani. Devo ammettere di aver sofferto moltissimo il caldo, soprattutto i primi 15 giorni, quando le temperature hanno superato il 50 gradi centrigradi (10º sopra le medie stagionali). Gli alti tassi di umidità, poi, hanno reso la corsa ancora più estrema».
Dove andava la tua mente quando aveva bisogno di ossigeno?
«Spesso, durante i chilometri fatti prima del ma del sorgere del sole, mi chiedevo come avrei potuto fare. Poi a ogni passo trovavo nuovi stimoli: mia moglie, Sofia e Margherita, che stava stava crescendo nella pancia della mamma ed è nata una settimana prima del mio arrivo. È stata dura, è vero, ma è quando le cose si fanno difficili che si ha l’occasione di crescere, di migliorare, di fare i conti con i propri limiti».
Dal punto di vista umano, cosa ti porti a casa dopo la L.A.-N.Y. 2011?
«Ho costruito dei rapporti bellissimi. Ho avuto la fortuna di avere un team di supporto che mi ha seguito passo passo, e per me è stata una novità. Quando condividi un’avventura così si creano dei legami speciali, fatti di fiducia e di stima reciproca. Se ce l’ho fatta, devo ringraziare anche Simone Bortolotti (il mio preparatore atletico) e Mauro Alamonti: mi sono stati vicino per tutti i 70 giorni. Insieme abbiamo vissuto un cambiamento: se prima la conoscenza era superficiale, ora c’è un rapporto solido che può sopravvivere a difficoltà e distanze».
Come vivi ogni volta il distacco dalla tua famiglia?
«È sempre un bel dilemma: da un lato c’è la parte di me più paterna, che vorrebbe sempre stare con mia moglie e con le bambine; dall’altro, c’è la parte di me che chiede di continuare a viaggiare. Nel dubbio, finora, ho sempre deciso di partire. Spesso vengo visto come un egoista, uno che abbandona la famiglia per inseguire i suoi sogni di gloria. Io, invece, penso che si tratti di un grandissimo gesto di altruismo: quando torno a casa, sono
una persona più saggia e più matura. In questo modo loro partecipano ai miei viaggi nel senso più profondo del termine, e quando ci sono, sono per loro al 100%. Forse un giorno mia figlia mi dirà che sono stato un cattivo
padre perché non c’ero nel momento in cui è nata; forse, invece, mi dirà che sono stato un uomo coraggioso perché ho avuto delle motivazioni e ho fatto delle scelte. La prima cosa che spero di insegnare alle mie figlie è la libertà: l’arte di vivere la vita senza compromessi, in tutta la sua pienezza. Prima o poi si tende a cadere nel gioco dei rimpianti. Ed è un peccato: la vita è così breve che non vale la pena avere rimpianti».
Hai già in mente la prossima sfida o pensi di startene tranquillo per un po’?
«Per almeno un anno voglio stare buono e dedicarmi alla famiglia. Con mia moglie, però, stiamo già lavorando a un altro progetto (per inciso: è lei la mia prima motivatrice; è più matta di me perché mi ha scelto che ero già così). Si tratta di un’idea a metà strada tra l’avventura e la ricerca scientifica: cercherò di sopravvivere su un iceberg in Groenlandia per 4-8 mesi per documentare da vicino tutte le fasi di vita di un iceberg. Lo scopo è quello di sensibilizzare l’opionione pubblica sul tema del riscaldamento globale: un discorso spes-
so troppo astratto e che vorrei documentare di persona».
Come ti è venuto questo pallino per le avventure? Ci sei nato o a un certo punto ti è scattato qualcosa dentro?
«La seconda. Studiavo all’università Scienze Bancarie ed ero una persona molto diversa rispetto a oggi. In quegli anni mi tempestavo di domande, penso di aver avuto una vera e propria crisi esistenziale. Non trovavo riscontro in ciò che stavo facendo, fin quando un giorno mi sono chiesto che piega volessi far prendere alla mia vita. Così mi sono messo a viaggiare. Ho compiuto la mia prima corsa in Africa, nel deserto del Marocco. Lì ho conosciuto delle persone che mi hanno incoraggiato a unire il viaggio allo sport, ed è nata l’Avventura».
So che ora hai un bel da fare anche come speaker motivazionale. Quali sono i punti di contatto tra le tue imprese e questa attività?
«Ricreo dei parallelismi tra le mie avventure e la vita quotidiana. Se c’è una cosa che ho capito è che ognuno ha il proprio oceano da attraversare. Purtroppo, nelle nostre società, le persone si allenano solo per il successo, mentre dovrebbero farlo anche per l’insuccesso. Imparare a reagire agli errori, ai dubbi, ai fallimenti: è questa la chiave per essere veramente liberi. Nel mio piccolo, mi accorgo che i miei racconti toccano corde di sensibilità comuni, e che dal piacere della condivisione possono nascere spinte importanti. Così viaggio e racconto, e nel mentre cerco di realizzare, uno a uno, tutti i miei sogni».