Una mattina di giugno arriva una telefonata della Nbc: “Parlo con l’architetto Leopoldo Rosati?”. “Sì, sono io”. “Dominque Strauss-Khan da un paio di ore sta occupando la casa da lei ristrutturata in Tribeca”.
Sono quelle telefonate che, da parte di chi le riceva, odorano di buono. A prescindere da tutto il resto.
Architetto Rosati, come è successo che Strauss-Khan ha affittato proprio la sua casa?
Il mio cliente, che viveva nella casa, aveva intenzione di venderla, perché aveva l’esigenza di trasferirsi in un nuovo loft. La compagnia immobiliare che si stava interessando della vendita della casa ha carpito che Dominique era stato rifiutato da molti condomini di Manhattan perché avevano paura che ci sarebbe stata troppa polizia e stampa e fotografi nei pressi del palazzo e che questi avrebbero disturbato le quiete degli altri inquilini, così gli hanno proposto quella casa, che essendo uno stabile indipendente, non aveva bisogno di sottostare a nessuna regola. Allora Dominique e la moglie sono andati a vedere la casa e hanno deciso di prenderla, a patto però che fosse libera immediatamente. Il proprietario, nel giro di poche ore, ha tolto tutte le sue cose e l’ ha affittata a cinquantamila dollari al mese. (Il prezzo di vendita è invece di quattordici milioni). Strauss-Khan è dunque il primo inquilino della casa.
Ci racconti com’è strutturata la casa.
È un unico Edificio di circa 600 mq, che si sviluppa su 4 livelli: tre visibili e uno interrato. Questo tipo di case si chiamano town-house. Il piano interrato (il basement), è il piano dell’entertainment, dedicato al “fun”, al divertimento, di cui una delle perle è certamente la sala cinematografica. È stata progettata in modo tale che le onde sonore non rimbalzino contro le pareti. I sedili sono fatti come quelli di un aereo di prima classe: è possibile modificare l’inclinazione della spalliera e del poggiapiedi a piacimento. Sono inoltre collegati tramite dei cavi al processore elettronico del film, così, a seconda della scena, il sedile produrrà un movimento o vibrazione, offrendo così un “effetto presenza”.
Lo schermo di proiezione è di circa undici piedi per cinque. Nella saletta antecedente il cinema, a pavimento c’è una sfera di circa novanta centimetri di diametro, con sopra dipinti a mano tutti gli attori più importanti dei film di mafia, realizzata dall’artista veneta Elena Cailotto. Questo perché il proprietario della casa (attivo nel campo immobiliare, ex produttore cinematografico) è un appassionato di film di mafia. La sfera ha una funzione decorativa, si direbbe che è un “pezzo da conversazione”.
Nel basement, oltre al cinema, c’è un bar, una palestra, una spa, e una lavanderia.
Emblematica dello stile della casa, che si può definire sicuramente minimalista, è la lunga parete al primo piano, fatta di pannellature laccate bianche che apparentemente risultano fisse, ma che in realtà nascondono la funzione di porte, per accedere nella camera degli ospiti, nel powder room, ed in due armadi. Perché a me piace molto nascondere, più che mostrare nell’arredamento, lasciare che le funzioni non si svelino subito per quello che sono. Altra caratteristica di questo primo piano, è la scelta del legno rovere naturale per degli arredi, che dà un’idea di estrema essenzialità.
Appena dopo l’ ingresso, si può subito notare il vano aperto della scala in acciaio, realizzata in Puglia da Ferro Arte e protetta ad ogni piano da delle grandi pareti di vetro, che mettono quindi in comunicazione visiva i quattro piani . Sempre al primo piano, sul pavimento in pietra pugliese di Trani, realizzato da Marmitalia, troviamo la cucina, progettata come se fosse un cubo richiudibile quando non la si usa, e questo perché deve convivere strettamente con il living room. Inoltre questo piano non ha finestre e prende la luce ed aria dal grande skylight situato sul terrazzo del secondo piano.
Il secondo è il piano dei bambini e ci sono due camere con in mezzo un bagno in comune. Le camere hanno le pareti dipinte a trompe-l’œil, con disegni a soggetto maschile per la stanza del bambino e femminile per la stanza della bambina, creati dall’artista milanese Michela Martello, che vive e lavora a New York. Al terzo piano c’è infine la camera matrimoniale.
L’appartamento ha complessivamente cinque bagni. La falegnameria è stata realizzata da due ditte diverse per velocizzare i tempi di realizzazione, la Turchetto Furniture della provincia di Milano, e la Falegnameria Gili della provincia di Vicenza.
Sembra di capire che nei suoi lavori ama circondarsi di collaboratori italiani. È vero?
È assolutamente vero. Lavoro con gli italiani per i mobili d’ arredo, la falegnameria, per le opere in metallo, i marmi e a volte per le vetrate, tende, e per tutti gli accessori artistico/decorativi.
Com’è successo che è venuto a lavorare a New York? Qual è stato il suo percorso lavorativo?
Mi sono laureato in architettura a Roma. Tra il 1980 e il 1985, cioè negli anni dopo la laurea, ho lavorato in Italia, nell’’85 ho fatto un viaggio di piacere, raggiungendo mio fratello che era qui a New York a specializzarsi in chirurgia. Il mio obiettivo lavorativo da sempre, era quello di aprirmi uno studio mio, e sapevo anche che in Italia sarebbe stata una cosa lunga e difficile, se non impossibile. Se a New York la vita da turista era così entusiasmante, probabilmente la vita lavorativa lo sarebbe stata ancora di più.
E così decisi di provare a lavorare per un breve periodo in uno studio di un architetto Newyorkese.
Decisi quindi di ripartire. Trovai lavoro presso lo studio di un architetto sulla Fifth Avenue. Finita quell’ esperienza feci un colloquio presso un grosso studio nel New Jersey che andò molto bene perché mi chiesero di restare, e mi procurarono anche il visto.
Ritornato a Roma per sistemare le cose, fui assalito da tutta una serie di dubbi sulla scelta che stavo per fare. E allora mi dissi: se in questo mese non riesco a trovare un cliente, che possa affidarmi un progetto, allora parto per New York definitivamente. Come era prevedibile … non successe nulla e quindi me ne tornai a New York, a lavorare per lo studio nel New Jersey. Dopo poco vinsi la green card con la lotteria, sorteggiata tra centinaia di migliaia di richieste. Lavorai per un anno e mezzo nello studio del New Jersey, poi mi trasferii a Manhattan e, lavorai per altri sei mesi presso un altro studio. Poi decisi di mettermi in proprio. Mentre cercavo clienti, stavo a casa a fare acquerelli, e andavo ai party la sera per chiacchierare con la gente. Una sera a una festa riuscii a trovare un cliente polacco. E lì è stato il mio inizio come architetto autonomo: le foto (mia altra grande passione) di questo primissimo lavoro andarono sul New York Magazine.
Com’è successo che si è trovato ad entrare in contatto con questo cliente, il proprietario della casa?
Nel 2000 ho lavorato per suo fratello, proprietario di molti night club di New York. Aveva infatti comprato una penthouse su due piani, che doveva ristrutturare (a due passi dalle torri gemelle, ancora in piedi). Lo conobbi grazie a conoscenti comuni e poi lui mi presentò suo fratello con cui abbiamo completato più lavori e, stiamo completandone un altro proprio in questi mesi.
I lavori per la casa di Tribeca sono invece iniziati nel gennaio del 2008 e sono finiti nel dicembre del 2009.