Nella foto John Cappelli con il figlio Vanni nel suo ufficio all'Onu agli inizi degli anni Sessanta
"Vanni, Nives telefonate subito ad Andrea, ditegli che dalla prossima settimana sarò pronto al rientro".
Queste sono le parole che John Cappelli ha detto al figlio e alla moglie appena uscito da una operazione chirurgica avvenuta la scorsa settimana. Sembrava tutto ok per l'indomabile gladiatore del giornalismo italiano in America. I medici erano soddisfatti. Dopo poche ore, John già dibatteva con Vanni la lettura di un libro di politica estera americana, una delle passioni che il padre aveva trasmesso al figlio. Poi domenica mattina, dopo colazione, ha chiuso gli occhi e non si è svegliato più. Aveva scritto il suo ultimo articolo per "America Oggi" appena quattro giorni prima.
John Cappelli, che da anni viveva a Poughkeepsie, NY, lascia la moglie Nives Rovedo Cappelli, scrittrice di romanzi, il figlio Vanni giornalista esperto di Afghanistan e Pakistan, e la figlia Cybele Sabina Cappelli, bibliotecaria.
John Cappelli, classe 1927, era nato a Union City, New Jersey. Il padre Giuseppe era di Marucci, una frazione di Pizzoli, pochi chilometri da L'Aquila, emigrato negli Usa nel 1913. La madre Savina Servilio Cappelli, era nata a Mulberry Street nel 1904. Morì quando John aveva solo cinque anni e così Giuseppe riportò nel 1933 il piccolo John in Italia, dove lì trascorse la gioventù tra Roma e l'Abruzzo. Siamo durante gli anni del consenso al Fascismo, ma l'adolescente John non ha il carattere per le adunate, i figli della lupa e le fanfare con i balilla. Mentre si avvicinano le nubi della tempesta della Seconda Guerra Mondiale, è già in lui lo spirito della libertà nutrito dalla sua passione-rifugio per la letteratura e la poesia. Dopo l'8 settembre, si trova in Abruzzo, e non aspetta che la tempesta finisca, ma rischia più volte di essere intercettato dai nazisti e dalle squadre fasciste mentre presta aiuto ai soldati inglesi e australiani ex prigionieri di guerra, ora sbandati nell'Appennino. Uno di loro, il britannico John Slinger, al quale un giovanissimo John salverà la vita tra le montagne vicino il Gran Sasso, gli resterà amico per sempre.
Nel 1947 John si imbarca, destinazione New York. Comincia subito a respirare l'aria di libertà facendo volantinaggio per le campagne elettorali del deputato italoamericano Vito Marcantonio di Harlem, unico indipendente eletto al Congresso. Poi serve nell'aviazione americana, in Texas, e riesce a pagarsi il college. Eccolo agli inizi degli anni cinquanta intraprendere la strada che non lascerà mai più. Come giornalista inizia nel settimanale comunista "L'Unità del Popolo", pubblicato nel Bronx. Intanto la Guerra Fredda si fa più intensa. John ha due agenti dell'Fbi alle costole. Qualche anno fa, ci ricordava così quei tempi: "Una volta andai a trovare lo storico DuBois, anche lui aveva gli agenti Fbi sotto casa. Faceva freddo quella sera, e quei quattro stavano congelando lì fuori. Stavamo in pensiero per loro, non sapevamo se andare ad offrirgli qualcosa di caldo o concludere prima la nostra conversazione per metterli al riparo".
Nel 1956 Cappelli comincia la sua corrispondenza con il quotidiano romano "Paese Sera", vicino al Pci anche se non "ufficialmente di partito" come era l'Unità. Scriverà dagli Usa per "Paese Sera" fino al 1984. Trent'anni in cui John sarà il testimone oculare per i lettori italiani della accelerazione della storia americana, soprattutto sui diritti civili (saranno in tanti coloro che pur non essendo comunisti, compravano "Paese Sera" solo per quelle corrispondenze di Cappelli di cui tutti riconoscevano competenza e credibilità). John viaggia, soprattutto nel profondo Sud. È a Little Rock nel 1957, quando c'é la crisi dei nove studenti di colore che non riuscivano ad entrare nel liceo a cui avevano diritto agli studi. E sarà, come ci ricorda il figlio Vanni, tra i primi giornalisti a giungere nel 1964 in Mississippi, quando tre giovani ragazzi volontari per i diritti civili spariscono (episodio che sarà ripreso nel film "Mississippi Burning"). "Andava in giro, chiedeva informazioni. Ricevette anche minacce dal KKK, gli dissero di andarsene. Ma mio padre non visse la lotta per i diritti civili solo da giornalista, fu in questo caso un vero e proprio attivista. Andava nei bar, si sedeva accanto ai neri e pretendeva che fossero serviti loro prima di lui".
Quello dei diritti civili sarà per John "the story" che più gli fece pulsare le vene nel suo lavoro di giornalista. Era a Washington quando Martin Luther King pronunciò il famoso discorso di "I have a dream". E poi, una volta, tra i corridoi delle Nazioni Unite, riuscì a fare delle domande al reverendo King. "Per mio padre, quella lotta per i diritti civili era fondamentale per la giustizia in questo paese. Non si stancherà mai di ripetermelo".
John si ritrovò anche nell'ufficio ovale con il presidente John Kennedy durante una delle visite di Stato italiane, per una "chiacchierata informale". Quando uccisero Kennedy, i sospetti di John non cambiarono mai: "I cubani anticastristi, alleati con forze deviate dei servizi segreti, organizzato con l'aiuto della mafia".
John condivideva al terzo piano del Palazzo di Vetro (Room 371), l'ufficio con David Horowitz, il decano dei corriposndenti dell'Onu, morto nel 2002 all'età di 99 anni. Andavo spesso a trovare John in quell'ufficio, sembrava esattamente congelato agli anni cinquanta. Giornali vecchi accatastati nelle scrivanie, bollettini appesi al muro chissà da quanto. Della storia tra quelle mure se ne poteva sentire ancora l'eco. Tra quei corridori John visse la grande crisi dei missili di Cuba: "Che silenzio c'era tra quelle stanze, nessuno fiatava. Ricordo il momento che arrivò il portavoce, con la notizia che le navi russe a poche miglia da Cuba ricevettero l'ordine di virare…".
Amava John ricordare i colleghi italiani con cui aveva condiviso tante storie, "Misha" Stille, Antonello Marescalchi. Cambiavano le generazioni e tutti riconoscevano in John la coerenza del giornalista attaccato alla "sacralità" della notizia. Pur "ideologicamente" schierato a sinistra, non si lasciava mai ipnotizzare dalla propaganda di chicchessia. In una bella intervista di Letizia Airos, apparsa su Oggi7 per i cinquant'anni di carriera di John, nell'agosto del 2003, titolata "Tanto di Cappelli", alla domanda su quali sono le doti che deve avere un giornalista, John rispondeva così: "Non sottostare mai a quello che potrebbe essere il dettato del padrone. Io non parlo del padrone del giornale, ma del padrone in generale. E criticare, ovunque possibile. Ma bisogna stare attenti, non essere fanatici nel farlo. E avere sempre le basi per quello che si dice".
Quando "Paese Sera" decade, John arriva a "Il Progresso Italoamericano". Siamo negli anni Ottanta. Durante le lotte sindacali che risulteranno nella nascita di America Oggi, John è in trincea con i colleghi. Ora John per le esigenze del giornale deve occuparsi di cronaca cittadina. Ma sono anni importanti, sono gli anni della "Pizza Connection", una inchiesta anti mafia in mano a un allora sconosciuto procuratore distrettuale di nome Rudolph Giuliani. Tra John Cappelli e Giuliani nascerà un rapporto non privo di conflitti proprio per la sua natura di concepire l'etica del giornalista. Sulle pagine di Oggi7, quando Giuliani decide di scendere in campo per tentare la scalata alla Casa Bianca, John ha ricordato: «L'avevo visto solo a tu per tu prima di quella intervista una sola volta nel 1985, la notte che Gaetano Badalamenti arrivò in USA dalla Spagna per esser processato da Rudy per la Pizza Connection; la scena nell'aula 303 di Foley Square aveva del surreale – c'era il giudice, il Marshal Romolo Imundi che aveva fatto sedere l'imputato nell'aula vuota, Rudy Giuliani, ed io seduto per convenienza nel settore della giuria; l'occasione per statuto era la presentazione pubblica di Badalamenti al procuratore. Le uniche parole scambiate per l'occasione furono, il giudice che chiese: "You are Mr. Gaetano Badalamenti", "Si, Vostro Onore, sono Gaetano Badalamenti": e poi il giudice a Rudy: "Mr. Giuliani, Mr. Badalamenti." Un cenno del capo, e Rudy disse: "Thank you Your Honor." Gli unici a non fiatare fummo Imundi ed io.
Non spetta a me qui fare la storia della collocazione ideologica di Rudy, sebbene so benissimo che aveva cominciato con l'esser un democratico doc., al punto d'impegnarsi a fondo per l'elezione di Robert F. Kennedy a senatore di New York.
Qui dico d'averlo conosciuto ed essergli stato tra i piedi per tanti anni e mi chiamava per nome come fa con tutti – caro John qui e caro John lí, o hello John, sino al giorno che gli feci una domanda scabrosissima nella Blue Room: "Mr. Mayor, perché avete tagliato di 40 milioni i fondi alle biblioteche pubbliche?" E puntando il dito su di me disse, "Quello là …" riservarndosi di non rispondere. Da quel giorno non fui piú caro John, e cessarono le cartoline di Natale da City Hall».
Come potete leggere accanto nella testimonianza di Massimo Jaus, non solo i politici, ma anche certi "uomini d'onore" di Cosa Nostra si accorsero di che pasta era fatto quel giornalista dalla professionalità americana e dal cuore italiano. John non era solo rispettato, ma era temuto. La sua inflessibile onestà messa al servizio esclusivamente degli interessi del lettore era inespugnabile.
La scomparsa di John Cappelli lascia nell'animo di chi scrive un senso di smarrimento. Da quando ho iniziato a lavorare e crescere come giornalista su questo giornale, John era lì per me, sempre un punto di riferimento. Ogni riga, sapevo che lui l'avrebbe letta e, senza peli sulla lingua, mi faceva sapere cosa pensava dei miei "editorial" come li chiamava lui. Mi faceva sentire importante, a me che avevo poco più della metà dei suoi anni e meno di un quarto della sua esperienza. John da anni mi scriveva continuamente email, per commentare qualunque cosa pensasse io avrei dovuto occuparmi. Qui voglio ricordare tra tanti solo due episodi: ai tempi della guerra all'Iraq, quando il conto alla rovescia di Bush iniziò con Colin Powell mandato all'Onu a "convincere" il mondo sulle armi di distruzione di massa, il sottoscritto, come la stragrande maggioranza di giornalisti e lettori, abboccò all'esca tesa da GW e Cheney. Ovviamente John no. Restò scettico sempre, mi scrisse montagne di email: "Powell è caduto nella trappola e con lui ora cadranno tutti gli altri".
Quando due anni fa, nella mia rubrica "Visti da New York", appoggiai subito la candidatura di Barack Obama contestando quella "ereditaria" di Hillary Clinton, anche lì John mi criticò, ma questa volta per la ragione che così tanto rivelava del carattere che ha riscaldato per l'intera vita il suo animo di giusto: "Caro Stefano", mi sciveva e cito a memoria, "vorrei tanto che tu avessi ragione su Barack, per me sarebbe il coronomamento di tutta una vita spesa nella speranza mai perduta per l'avvento di una vera democrazia in questo paese. Ma se i democratici scelgono Obama, perderemo. Accontentiamoci per ora della prima donna, è già un bel primo passo. Io non ho tanto tempo, almeno questo". Da lì a pochi mesi, John sarà euforico, forse più di quando nel 1947 si imbarcò pieno di speranze verso l'America.
Grazie John, se la democrazia in America è arrivata fin qui, lo deve anche ad un giornalista rimasto sempre vero.