“Nessuno ama colui di cui ha paura.” — Demostene
Un ministro della Giustizia non è un passacarte. Non dovrebbe esserlo nemmeno quando lo si mette sotto tiro per un caso così delicato come quello di Almasri, l’ex criminale di guerra libico arrestato in Italia e poi misteriosamente “lasciato andare”. Carlo Nordio ha risposto con freddezza, con quel tono quasi professorale che spesso viene scambiato per arroganza, ma che in realtà è il riflesso di una battaglia istituzionale ben più ampia. Il problema però è che il caso è politico, giudiziario, mediatico e morale allo stesso tempo. Ed è sfuggito di mano.
Cosa sta succedendo davvero?
Il ministro afferma di essere stato informato ufficialmente solo lunedì 20 gennaio. Le opposizioni sostengono il contrario, portando alla luce messaggi e comunicazioni tra il suo staff e magistrati già nella giornata di domenica. È la solita questione italiana delle date, dei protocolli, delle responsabilità che si aggirano tra le righe. Ma qui non si parla di burocrazia: si parla di un uomo ricercato per crimini gravissimi, arrestato in Italia, e non estradato.
Nordio difende la sua posizione con fermezza, come se bastasse la trasparenza promessa (“tutti gli atti saranno pubblici”) a dissipare ogni dubbio. Ma la sensazione, che cresce giorno dopo giorno, è che non si tratti solo di uno scontro su un fatto. È uno scontro sul significato stesso del ruolo che la Giustizia deve avere in questo paese.
Un pretesto per colpire la riforma?
È qui che Nordio trova il suo “alibi di ferro”: tutto questo, dice, è solo un pretesto per bloccare la sua riforma della Giustizia. Non è un’accusa campata in aria. La sua proposta — separazione delle carriere, depotenziamento del CSM, responsabilità disciplinare per i magistrati — non è piaciuta a molti. Soprattutto non piace a una certa magistratura militante e a un’opposizione che ha perso il terreno del consenso e cerca ora uno scalpo istituzionale.
Eppure, proprio perché Nordio sa di trovarsi in una trincea, non può permettersi il lusso di essere ambiguo. Dire “non ne sapevo nulla” oggi non basta. Serve chiarezza totale. Non per chi fa battaglie strumentali, ma per i cittadini che guardano e che hanno tutto il diritto di sapere se il loro ministro è stato onesto o ha omesso qualcosa di grave.
Il paragone con Garlasco è inquietante
Molti commentatori hanno già paragonato il trattamento riservato a Nordio con i processi mediatici di Garlasco, di Perugia, di Cogne. Casi dove la presunzione di innocenza fu sepolta sotto il fango delle trasmissioni TV e delle inchieste a orologeria. Ma qui non si tratta solo di massacrare un uomo. Qui si sta mettendo in discussione la legittimità di un’intera riforma, e lo si fa nel modo più sporco: colpendo l’uomo simbolo, cercando l’errore, il dettaglio, la crepa.
Il ruolo di Piantedosi
E come se non bastasse, il Viminale di Matteo Piantedosi ha aggravato il quadro. Almasri non solo non è stato trattenuto, ma addirittura è stato respinto, con un provvedimento che oggi appare quantomeno affrettato, se non del tutto irresponsabile. Il respingimento verso la Libia, per altro in un contesto giuridico internazionale delicatissimo, rappresenta un gesto che ha messo in difficoltà l’intero governo, non solo il ministero della Giustizia. Ma Piantedosi non parla, non si espone, e lascia Nordio solo a reggere la pressione. In un esecutivo compatto, questo suona come una resa.
Chi sta armando questa cagnara è ridicolo, pazzo e irresponsabile.
Sì, lo è. Perché se davvero qualcuno ha preso un caso così delicato per strumentalizzarlo, non sta danneggiando Nordio. Sta minando il rapporto tra magistratura e politica, tra Stato e cittadino. E lo sta facendo nel momento peggiore, mentre l’Italia è osservata con attenzione per il coraggio o l’incoscienza con cui vuole riscrivere le regole del gioco.
Conclusione
La verità su Almasri è ancora immersa nel fango delle omissioni, dei silenzi, delle contraddizioni tra poteri dello Stato. Ma ciò che è già chiarissimo è la volontà feroce di abbattere politicamente un ministro scomodo. E non si tratta di difendere Nordio in quanto uomo, ma ciò che rappresenta: un’idea di giustizia liberale, non populista, non ideologica, finalmente separata da quegli intrecci tra PM e carriera che hanno incancrenito il sistema.
Il respingimento firmato da Piantedosi, il silenzio di Palazzo Chigi, la caccia al dettaglio da parte dell’opposizione: tutto fa parte di uno schema malato, dove la verità è l’ultima cosa che interessa. Si cerca il simbolo da abbattere, non la responsabilità da accertare.
E viene naturale chiedersi: cosa avrebbe fatto un grande giurista come Norberto Bobbio davanti a un simile spettacolo? Non si sarebbe nascosto dietro il formalismo delle carte, ma avrebbe posto una questione più radicale: lo Stato di diritto serve a garantire la legalità, o a nascondere i suoi fallimenti dietro un linguaggio tecnico? Bobbio avrebbe difeso con forza il principio della separazione dei poteri, ma non avrebbe mai accettato che la magistratura diventasse uno strumento di lotta politica. Avrebbe chiesto trasparenza da Nordio, certo, ma avrebbe denunciato con altrettanta forza il clima da fiera dell’accusa che si respira in questi giorni.
Bobbio, con la sua etica del dubbio e della responsabilità, ci ricorderebbe che uno Stato non è più giusto solo perché colpisce un ministro, ma lo è quando rispetta le regole anche — e soprattutto — quando fa comodo ignorarle.
Nordio, con tutti i suoi limiti e il suo stile a tratti supponente, ha però posto un problema vero, che nessuno può fingere di non vedere: o si riforma la giustizia italiana, oppure continuerà a essere usata come un manganello politico. E quel giorno non si parlerà più di Nordio, né di Almasri, né di nessun caso mediatico. Si parlerà solo del disastro compiuto. E sarà troppo tardi.