Il primo vescovo di Roma, Pietro, scrivendo ai cristiani dell’Asia Minore perseguitati dal potere civile romano e dal potere religioso ebraico, volendo definire i comportamenti del demonio utilizzò l’immagine del leone: «adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret» (1, 5:8). Il diavolo è un irriducibile avversario, che si aggira nei paraggi per divorare chi può, proprio come fa il leone ruggente.
Nonostante l’accostamento proposto dall’iniziatore del papato, ben quattordici successori avrebbero scelto il nome di Leone; ultimo della lunga serie, nella serata romana di ieri, lo statunitense Robert Francis Prevost.
Si usa dire nomen omen, ovvero che nel significato letterale di un nome si trova il presagio di ciò che la persona sarà e farà. Il detto vale certamente quando il nome non è imposto, ma assunto da un adulto, come nel caso di papa Prevost. Si aggiunga che anche il primo Leone della storia, eletto nel 440, così importante da meritare l’aggettivo di Magnus (grande), il nome lo aveva dalla nascita, e non lo mutò.
Si può ragionevolmente ritenere che la scelta di Prevost abbia come riferimenti il primo e l’ultimo dei Leone che lo hanno preceduto, il citato Leone I e Leone XIII. Il primo, toscano, defensor fidei nel mare procelloso delle proliferanti eresie e apostasie contro pelagiani, manichei, priscillianisti, monofisiti, ariani, nestoriani, e defensor urbis contro gli invasori che saccheggiavano Roma.
Il secondo, di Carpineto Romano, eletto al soglio nel 1878, nel 1891 promulgatore dell’enciclica Rerum Novarum («delle novità»), motivata dalla «questione operaia»: per questo riconosciuto un papa pastore, padre della dottrina sociale della chiesa. Già l’avvio dell’enciclica dovette sembrare un turbine che andava a scombinare il linguaggio tradizionale dei documenti pontifici, figurarsi il resto! «L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale.»
Si apriva nella chiesa la questione sociale, tuttora aperta verrebbe da dire guardando al papa che ieri, dal balcone su piazza San Pietro, ha fatto esplicito riferimento al predecessore, Francesco, da tanti accusato di eccessivo impegno sul sociale.
Senza esagerare nell’attribuzione di contenuti a un nome, qualche indicazione si può tirare dalla scelta di Prevost.
La prima è tutta interna alla chiesa e al suo modo di stare nel mondo. Leone XIV sa che arriva dopo un papato che, volutamente, ha smosso molte delle acque chete (talune anche paludose) accumulatesi nei decenni del papato “trionfante” di Giovanni Paolo II e “conservante” di Benedetto XVI. Sarà papa “canonico” (ha alle spalle ottimi titoli in diritto canonico conseguiti presso l’università pontificia dei padri Domenicani a Roma nel 1984 e 1987) e “unificante” come il Magno Leone. E sarà tuttavia anche “pastore aperto”, socialmente sensibile come il XIII dei Leone papi.
Quindi apertura al sociale e ai conflitti presenti nel mondo, inclusione dei poveri e degli emarginati, promozione dei diritti della donna anche dentro la chiesa, sempre nell’indeclinabile rigore intellettuale e l’indefettibile scelta dottrinale che riaffermano il primato della Santa Sede e l’ancoraggio forte ed esplicito alla professione della fede.
Si avrà probabilmente il rilancio del dialogo ecumenico con le altre chiese cristiane, sia per le esperienze di rapporto diretto con il pluralismo delle confessioni che il nuovo papa porta in dote al pontificato, sia per il richiamo all’eredità di Leone Magno, venerato come santo anche nelle chiese orientali non cattoliche.
Come metodo di lavoro, dovrebbe essere ulteriormente promosso quello sinodale, non solo perché richiesto insistentemente dai molti cardinali che si sono confessati pubblicamente sconosciuti gli uni agli altri, ma perché si tratta di un modo necessario a saldare le fratture prodotte durante il pontificato di Bergoglio.
Prevost predicherà il senso di comunità e di umiltà che ha appreso dagli Agostiniani, il porsi dei presbiteri con e non sopra il popolo di Dio, il rifiuto del bruto esercizio di leadership, il perseguimento sempre e comunque del vero e del giusto. Sono i valori da lui ripetutamente consegnati ai vescovi negli anni nei quali, su incarico di Francesco, ne ha governato formazione ed orientamento come prefetto del Dicastero per i vescovi (da gennaio 2023).
Aiuteranno la riconosciuta capacità di ascolto, il temperamento disponibile al sorriso e alla battuta, le esperienze interculturali e intercontinentali acquisite, la pacatezza e moderazione di fondo, sconfinante quasi nella timidezza, attribuite al carattere del neoeletto papa. Una caratteristica che è sembrata comparire ieri, nella prima apparizione pubblica, insieme alla comprensibile emozione della nomina. Aiuterà anche la vocazione di Prevost all’utilizzo degli strumenti scientifici appresi nei lunghi e amatissimi studi di logica e matematiche.
Venendo alle domande più immediate che in molti si stanno ponendo in queste ore, la prima riguarda la nazionalità del nuovo papa, nato a Chicago nel 1955: si reputa inopportuno che si sia consegnato il più alto potere religioso esistente a uno statunitense, quando un suo connazionale detiene già il più alto potere politico economico e militare al mondo.
La risposta deve partire da una premessa. I cardinali, non casualmente chiamati “principi della chiesa”, costituiscono il comitato centrale di una istituzione che è per sua natura “cattolica”, ovvero universale, sottratta a qualunque potere statale, che risponde sul piano amministrativo alla Santa Sede e sul piano religioso a Cristo.
Dal che si deduce che un papa non solo non risponde alla nazione nella quale è nato, ma che può anche capitargli di porsi come “contropotere” rispetto a quella nazione. Non è casuale che nel saluto rivolto alla folla, nel giorno dell’elezione, Prevost, cittadino peruviano da un decennio, non abbia pronunciato una parola in inglese, esprimendosi in latino, italiano e castigliano, lingua della sua diocesi peruviana.
Detto questo, non può negarsi la complessità di una funzione pietrina esercitata come papa di origine statunitense. In questa complessità si ritrovano molti elementi: la rilevanza religiosa crescente che i cattolici acquisiscono negli Usa come in altri paesi tradizionalmente protestanti o evangelici, il potere finanziario della chiesa statunitense, la solidarietà con una chiesa scossa dagli scandali di pedofilia, l’opportunità che si sedino i conclamati conflitti interni.
In tema di nazionalità, va rilevato come il cattolicesimo italiano da mezzo secolo (l’ultimo italiano, Luciani, fu eletto nel 1978), manchi di esprimere il vescovo di Roma. Stavolta sono stati fatti circolare ad arte due nomi, già di per sé ineleggibili (Pizzaballa, in arrivo dagli orrori del conflitto israelo-palestinese) e Parolin (un segretario di stato “diminuito” dalla loquacità di Francesco sui temi internazionali).
Se il ragionamento si allarga al blocco delle nazioni della vecchia Europa tradizionalmente papalina (non ne fanno parte la Polonia di Wojtyła e la Germania di Ratzinger) bisogna risalire al 1522, ad Adriano VI, nato a Utrecht, allora Sacro Romano Impero.
Emergono le nazioni di nuova evangelizzazione: oggi l’America tutta, settentrione e meridione, può gloriarsi di aver donato un papa alla cattolicità. Una delle prossime volte toccherà, inevitabilmente, ad Asia e Africa, dove la cattolicità sta crescendo e prosperando.
E qui si apre una considerazione sulla capacità di resilienza del cattolicesimo, e del collegio cardinalizio che lo governa. “Ben scavato, vecchia talpa” avrà detto Marx guardando nel 1978 a Wojtyła che, dal cosmo comunista arrivava a Roma per scavare alle radici sovietiche.
La frase potrebbe ripeterla fra qualche stagione quando, il papa arrivato dal cosmo MAGA, dovesse aver contribuito all’erosione di un fenomeno che si sta mostrando un rischio esistenziale per la democrazia federale, e non solo.
Sembrerebbe temere un esito del genere l’ineffabile e per ora inossidata Laura Loomer, quando scrive nel suo account che Prevost è “anti-Trump, anti-MAGA, pro-open Borders, and a total Marxist like Pope Francis” e che di conseguenza “Catholics don’t have anything good to look forward to”, riassumendo, bontà sua, l’accaduto ieri nella cappella Sistina con un “Just another Marxist puppet in the Vatican.”
Chissà che non sia stata la parola “pace” reiterata ben nove volte in san Pietro, ieri, a disturbare il trumpismo esagitato dei Loomer. O che forse quella parola sia stata accostata dal papa a “giustizia”, e a “non avere paura” (un appello che fu ripetutamente di Giovanni Paolo II), con una frase che sembra voler raccogliere la missione del nuovo pontificato:
“Chiesa unita cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari.”