Lo spettacolo è a dir poco ridicolo, se non addirittura patetico. A offrirlo è la compagine governativa italiana impegnata ad assicurarsi i favori di Trump, a rendere gli onori al presidente che ha dichiarato guerra commerciale (ma non solo) all’Unione europea. La presidente del Consiglio Meloni da una parte e il suo vice Salvini dall’altra sono impegnati da settimane in una disputa singolare che tanto ricorda quella tra bambini quando si tratta di conquistare le simpatie del genitore.
Il primo round è andato a Giorgia, invitata in gennaio alla cerimonia di insediamento del presidente americano, e in quel caso Matteo ha masticato amaro vedendo ignorate le sue ambizioni e le sue sgomitate per esserci. Ed è per questo che il segretario della Lega, nonché ministro dei Trasporti, cerca da allora di intestarsi il titolo italiano di “più trumpiano dei trumpiani”. La premier si barcamena per difendere le decisioni della Casa Bianca sui dazi? Lui dice che sono un’opportunità e annuncia una sua missione in America per propagandare il made in Italy. Lei, in corsa per lo stesso titolo, preme per un invito ufficiale alla Casa Bianca, per sentirsi al livello di Macron e Starmer? Il leader leghista, all’insaputa di Meloni, telefona allora a JD Vance che ricambia la cortesia definendolo “il mio amico Salvini” e annunciando che non vede l’ora di visitare presto l’Italia. Presto significa fine aprile? Lei chiede di poter andare a Washington prima che il vice di Trump venga in Italia e sbaciucchi troppo il suo vice; intanto, per omaggiarlo, dice che Vance ha fatto bene a svillaneggiare la Ue. Elon Musk sembra meno caloroso con Meloni da quando non è più sicuro di poter piazzare i suoi Starlink anche in Italia? Salvini cerca di accaparrarselo, lo invita al congresso leghista e gli stende un tappeto rosso che non ritira neppure quando l’oligarca sudafricano consigliere dell’oligarca americano prevede – senza disporre di nessun dato reale – che in Europa attentati terroristici provocheranno “uccisioni di massa, massacri veri e propri”. E quando Musk aggiunge che “le vostre famiglie, i vostri figli, i vostri amici sono tutti a rischio”, il padrone di casa anziché chiedere ragione di questa sortita si inchina ancora di più e chiosa: “Purtroppo sì”.
Questo succede in Italia, da ottant’anni alleata dell’America che l’ha liberata dalla dittatura nazifascista e che oggi – come tutta l’Europa – si vede costretta a fare i conti con l’imprevedibilità di Trump. Proprio le sortite e le decisioni del presidente americano e del suo singolare vice indurrebbero a ripensare quell’alleanza, a tutelarla dai colpi di testa e dalle sopraffazioni. Anche da questo deriva la necessità sempre più urgente di dare una dimensione forte all’Unione europea, così esecrata da Washington, dotandola di strategie, autonomie e armamenti. Il governo populista italiano preferisce invece inchinarsi davanti a Trump per il bacio della pantofola.
La storia, a partire dal 1945, insegna che tutti i governi che si sono succeduti a Roma sono stati vassalli dell’America, ma per motivi decisivi che si chiamavano guerra fredda e piano Marshall. Un dovere di lealtà che nasceva dalla Liberazione, dagli aiuti per la ricostruzione e dalla minaccia comunista mossa da Mosca. La classe dirigente democristiana, laica e socialista ha sottoscritto per decenni l’alleanza con l’America perché garantiva quella sicurezza che anche Berlinguer arrivò a riconoscere. Ciò non ha impedito a Craxi e a Moro – con Sigonella e con il compromesso storico – di assumere anche posizioni di ‘rottura’ con gli Usa, pagandone entrambi lo scotto, per affermare gli interessi italiani.
Oggi che l’alleato americano, improvvisamente imbizzarrito, non è più sinonimo di sicurezza, mette a rischio la democrazia anche negli States, si sintonizza con Putin, costituisce un problema per l’Europa e per l’Italia, servirebbero analoghe risposte leali e ferme. Come sembrano venire anche da Francia, Germania, Gran Bretagna. Ma purtroppo a Palazzo Chigi ci sono soltanto cheerleader.