Ammesso, e non concesso, che la crociata tariffaria contro il mondo abbia una giustificazione economica, ciò che la “nuova indipendenza USA” proclamata da Trump da un campo da golf venerdì, alla fine della settimana record per i trilioni persi dalle borse, ha già prodotto è una debacle geopolitica internazionale.
Partiamo dai dazi. “Una brillante mossa strategica? Un catastrofico autogol?” Il dubbio espresso da Bari Weiss su FreePress di giovedì 3 aprile espone bene la drammaticità della situazione. La stragrande maggioranza degli economisti si è schierata con la seconda tesi ed è significativo che tra i critici di Trump si ritrovino, con vario grado di condanna, anche opinionisti ed esperti di scuola liberista che sono stati dalla sua parte il 5 novembre.
“Se Trump manterrà ora fede all’intenzione, annunciata in campagna elettorale nel 2024, di imporre tariffe generalizzate del 10% sulle merci in entrata negli Stati Uniti – soprattutto dalla Cina, ma anche dagli altri Paesi, amici e alleati compresi – questa politica iper-protezionista sarà l’equivalente di una ‘tassa commerciale’ sui consumatori americani”, avevo scritto nel libro Trump La Rivincita (Mind Edizioni, novembre 2025) anticipando il suo programma e spiegando le ragioni della vittoria. E commentavo: “A sostegno di una posizione contraria ai principi di libero mercato che hanno costituito l’ortodossia repubblicana da Ronald Reagan a George Bush, [Trump] difende la politica economica che ha condotto nel primo mandato”. Quindi, se è vero che non c’è nulla di “improvvisato” nella proclamazione del 2 aprile, questo è un argomento che annulla il richiamo alla “emergenza” invocato da Trump per rimediare allo squilibrio nella bilancia commerciale USA con i suoi partner.
È vero che gli americani importano più di quanto esportano, ma nella dottrina non c’è un consenso acclarato che questo sbilanciamento aritmetico sia di per sé negativo per il Paese. I fattori che rendono “felice”, “in forma”, “prospera”, una società sono complessi: la disoccupazione legata alla de-industrializzazione è grave in molte aree, ma quanto hanno inciso sulla migliorata qualità della vita, negli Stati rossi e blu, le tecnologie sviluppate grazie alla libertà d’impresa, allo spirito innovativo del capitalismo e alla deregolamentazione? O l’arrivo di prodotti deprezzati dal terzo e quarto mondo che hanno tenuto bassa l’inflazione per anni, rimpolpando d’altra parte i salari effettivamente penalizzati della classe media, punita da una immigrazione indispensabile?
La ricetta commerciale ultra-semplicistica di Trump sta già dando esiti opposti. Gli investitori, soprattutto i lavoratori coi loro fondi pensione che ne sono larghissima parte, vedono gli indici precipitare e possono affrontare il panico delle perdite solo con la speranza borsistica nel lungo termine o con la fede in Trump. I sindacati dei settori industriali vivono una condizione innaturale, abbarbicati al presidente iper-protezionista di un partito, il GOP, che hanno sempre detestato. Intanto, assistono alle promesse di apertura di alcune fabbriche di auto (ma ci vorranno minimo 3 anni) e ai tweet di Trump che annuncia miliardi di investimenti dall’estero di aziende in fuga dalle tariffe.
Come andrà a finire? Bisogna dare tempo, a Bari Weiss e a noi tutti, per avere la risposta al dilemma, sul piano economico. Purtroppo, la “debacle geopolitica internazionale” cui accennavo sopra è però già acquisita. In un mondo dove l’anti-americanismo è vivo e vegeto, Trump dovrebbe avere ben chiari alleati e avversari. Lui non distingue e la “cura universale” dei dazi (10% di base e il resto frutto di una formula a-scientifica) è cervellotica e sbagliata. Crea un fronte unito anti USA, invece di sfruttare gli interessi di ogni Paese e le loro divisioni. Esempio: se la Cina è IL nemico, perché caricare di tariffe più pesanti il Vietnam, che compete con Pechino e ama l’America?