Sconcerto e preoccupazione. Sono prevalentemente questi gli stati d’animo degli italiani dinanzi a parole e decisioni di Donald Trump. Si spiegano anche così le decine di migliaia di persone che sabato scorso hanno riempito Piazza del Popolo a Roma accogliendo un appello di Michele Serra. Era sì una manifestazione a sostegno dell’Europa, ma di un’Europa che si sente minacciata dal presidente americano così come da quello russo. La dichiarata guerra dei dazi si accompagna quasi quotidianamente agli insulti e alle fake news. Sostenere che l’Unione europea è nata per fregare l’America – parole di Trump – significa falsare la realtà e considerare alla stregua di un nemico i ventisette Paesi che ne fanno parte. E in questo modus operandi, visto dall’Italia e dai suoi partner europei, rientra anche la pretesa di annettersi la danese Groenlandia, ma soprattutto l’idea di pace nel teatro di guerra ucraino che sembra tutta a vantaggio dell’invasore Putin e a svantaggio dell’invaso Zelensky e del Vecchio Continente.
Queste come altre mosse del presidente americano sullo scacchiere americano e mondiale fanno sì che nei suoi confronti vengono usate in Italia espressioni come “bullo”, “autocrate”, “dittatore”, “mafioso”, “folle”. Talvolta esagerate, di certo dettate dallo sconcerto provocato da chi guida oggi in modo sconsiderato un Paese fino a ieri ritenuto il perno di un’alleanza in nome della democrazia e dei reciproci interessi. In ogni caso, simili epiteti non erano mai stati usati prima per nessun presidente americano, neppure per Nixon o per Bush, ai tempi del Watergate o della guerra in Iraq. Ma ciò che era inimmaginabile, se non in un film di fantascienza, è oggi la realtà entro cui italiani ed europei devono muoversi quotidianamente. Hanno a che fare con un Trump che interpreta il ruolo di presidente della prima potenza mondiale come interpretava quello del Boss nello show tv The Apprentice, ispirandosi più ai dettami di Roy Cohn che a quelli della Costituzione. Come ha detto il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti: “Non conosce etica e democrazia”.
“Trump non è più un nostro alleato”, è un’altra delle espressioni che accompagnano il dibattito pubblico in Italia. Politici, intellettuali, economisti, opinione pubblica condividono le stesse preoccupazioni, con sfumature variabili dovute solo all’essere di area progressita o conservatrice. È sul cosa fare di fronte a questa offensiva proveniente dall’altra parte dell’Atlantico che si differenziano le due aree. Mentre la destra è propensa a considerare le sortite di Trump soltanto una pressione transitoria che porterà a nuove intese, la sinistra le reputa minacce cui far fronte dando finalmente forza all’Unione europea. Tutti però concordando sul fatto che Washington vuole ridisegnare gli equilibri mondiale all’insegna del Make America Great Again, ma salvaguardando il rapporto con la Russia per contenere le mire della Cina. In questo quadro va inserito anche il dibattito sul riarmo dell’Ue annunciato da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. E qui le divergenze di idee attraversano entrambe le aree politiche italiane, sparigliano la maggioranza di governo come la minoranza. Giorgia Meloni e Elly Schlein si muovono per motivi diversi in un precario equilibrismo. Ma probabilmente accomunate dalla consapevolezza di avere a che fare con un Trump pronto a prevaricare su chiunque, come ben ha dimostrato l’umiliante trattamento riservato a Zelensky alla Casa Bianca.

Impossibile prevedere come si concluderà questa singolar tenzone che per ora sta sbriciolando l’idea di America che dalla fine della seconda guerra mondiale aveva fatto sognare tanti europei. Sintomatica, oltre che provocatoria, è la richiesta dell’eurodeputato francese Raphaël Glucksmann: “Gli Usa restituiscano alla Francia la Statua della Libertà. Fu un regalo ma a quanto pare gli americani oggi la disprezzano”. Bisognerebbe forse dire: gran parte degli americani che hanno votato Trump credendo in una nuova età dell’oro e che la vita di un Paese sia soltanto questione di money e non anche di diritti, doveri, regole, solidarietà, tolleranza. In altre parole, di democrazia. Restano tricerati nelle loro convinzioni anche se in soli tre mesi il loro presidente ha minacciato l’equilibrio della giustizia, la libertà di stampa, i valori dell’istruzione pubblica, la tenuta dell’economia. Ma adesso che lo “spirito di Capitol Hill” si è impossessato del comando degli States, agli italiani e agli europei rimane una domanda: dove sono finiti – tra i democratici ma anche tra i repubblicani – coloro che si sono opposti a questa deriva? L’afonia dei Barack Obama e dei George W. Bush, dei Mike Pence e delle Nancy Pelosi, delle Hillary Clinton e delle Liz Cheney è altro motivo di preoccupazione perché tanto simile a una resa. Anche le esigue protesta di piazza contro la politica trumpiana vengono lette su questa sponda dell’oceano come il segnale di uno smarrimento collettivo. Molto simile a quello descritto nel 2023 da Rachel Maddow in Prequel – Quando l’America rischiò di diventare fascista. Henry Ford, Charles Lindbergh, Philip Johnson, Charles Coughlin, William Pelley, in mome dell’America First predicavano tra gli Anni Trenta e Quaranta isolazionismo e fascismo. Volevano un regime autoritario e razzista. Il progetto fu fermato soltanto in extremis da poche centinaia di cittadini che ebbero il coraggio di denunciare e fronteggiare il pericolo. Un pericolo che sembra tornato a serpeggiare in America come in Europa. Democracy first, dovrebbe essere lo slogan che le tiene ancora insieme.