Che sia avvenuto per un sincero moto di coscienza (la riscoperta della libertà di pensiero in America) o per piatto interesse commerciale (la vittoria di Trump), il mea culpa di Mark Zuckerberg, numero uno di Meta-Facebook, è benvenuto. Il mea culpa, come è stato battezzato da tutti i media il suo recente video della conversione, si riferisce all’abbandono della censura, che passava per missione nobile contro le fake news ed era in realtà politicamente motivata contro i conservatori.
Jeff Bezos, con la sua Amazon, partecipava alla stessa trama e ha fatto una autocritica, identica nella sostanza, ma sotterranea: prima chiamando il suo Washington Post fuori dal gioco degli endorsement dei presidenti (negandolo a Biden nello sconcerto dei liberal), poi firmando un accordo da 40 milioni di dollari con Melania Trump per assicurare ad Amazon Video la produzione di un documentario sulla sua vita, con cameo del marito e del figlio Barron.
Ricordiamo il clima, caro a Mark e a Jeff, fino a oggi dominante. Sotto la mannaia dei “fact checks” (il “controllo dei fatti”, e mai il termine fu più abusato e distorto) erano finiti, negli anni di Trump presidente e poi candidato, tutti i momenti cruciali della vita politica. Dalla “cospirazione di Putin con Trump” nel 2016-2017 alla infallibilità di papa Fauci che gestì da tiranno il Covid, con i lockdown indiscutibili, e negò la possibile partecipazione del laboratorio cinese, da lui co-finanziato, alla diffusione del virus. Per non dimenticare l’operazione di oscuramento, attuata dai big dell’high tech in combutta con il New York Times (etcetera), del computer di Hunter Biden e del suo tesoro di scandali.
Fatti di rilievo storico e fatterelli minori, tutti maltrattati dalla “dittatura” del consenso politicamente corretto. Quindi inattaccabile, assoluto.
Lo posso affermare con cognizione di causa perché, fatterello minore, sono stato vittima di Amazon pure io. All’uscita del mio libro “Trump – La rivincita”, a inizio novembre, l’editore Mind aveva mandato un video alla piattaforma per essere pubblicato.
La risposta? Eccola: “Video rifiutato. Il video presenta contenuti offensivi”. I contenuti erano gli stessi della scheda illustrativa del libro, ma i filtri della censura (Intelligenza Artificiale? Solerte funzionario minculpop?) non avevano consentito il passaggio del video sulla vittoria di Trump.
Il mea culpa di Zuckerberg è una rivoluzione, di cui compiacersi se si ha a cuore una normale atmosfera di correttezza informativa generale, finalmente bipartisan e non preconcetta. Senza caccia alle streghe. Ripensando al recente passato, si ha l’impressione netta, e sgradevole, di aver vissuto in anni di esasperazione dei costumi mediatici.
Due esempi sono già entrati nella storia. Il “razzismo antirazzista” della Critical Race Theory, contro i bianchi inguaribilmente oppressori e finiti vittime delle liturgie discriminatorie della pratica della DEI (diversity, equity, inclusion) nelle aziende e nelle scuole. E il fanatismo contro l’energia fossile, degenerato in religione settaria contro lo sviluppo economico sostenibile: ossia intelligente perché punta, come ha sempre fatto l’homo sapiens, sulle tecnologie scientifiche, e non sulle ideologie, per risolvere i problemi della Terra. E i cambiamenti climatici sono un fenomeno da studiare, non un totem da idolatrare.
Vuoi vedere che, sul punto di perdersi in utopie deviate, la bussola USA ha ritrovato la stella della ragione?