Il decesso di un ex presidente americano è l’occasione per ovvie commemorazioni retoriche, ma aiuta a capire la reale essenza della democrazia negli Stati Uniti, ben oltre le asperità che animano le campagne presidenziali (molto seguite da Paese nelle ultime elezioni: nel 2024 ha votato il 63,9% degli aventi diritto, poco più che nella sfida JFK-Nixon).
Quando se ne è andato a 100 anni Jimmy Carter, democratico – il presidente più vecchio della storia che ha ringraziato Dio di averlo fatto vivere abbastanza per permettergli di votare Kamala Harris il 5 novembre – tra le primissime reazioni risaltano quelle degli avversari: del presidente-eletto Donald Trump, del GOP e di Fred Ryan, presidente della Biblioteca del repubblicano Ronald Reagan, che aveva battuto Carter nel 1980 negandogli il bis.
Dopo le parole di cordoglio, Ryan ha scritto, da depositario dell’eredità storico-culturale di Reagan, che “quella speciale fratellanza di ex presidenti giudicherà Carter come modello ideale di vita dopo la carica. I 35 anni di partnership con Habitat for Humanity, il rafforzamento delle democrazie in 39 Paesi e il consolidamento degli standard internazionali per i diritti umani, fanno di Carter la personificazione del servizio pubblico”. Quando nel 1986 ci fu la inaugurazione della Biblioteca Presidenziale di Carter, tra gli oratori c’era stato lo stesso ex-sfidante del 1980. Reagan, da presidente in carica, si rivolse a lui con queste parole: “Da parte mia, non posso tributarti un onore più alto che il dirti semplicemente questo: hai dato te stesso a questo Paese, onorando la Casa Bianca con la tua passione, intelletto e impegno. E ora sei diventato parte di quella grande vecchia casa, così ricca di tradizioni, che appartiene a noi tutti. Per questo, mister president, ti ringrazio e il tuo Paese ti ringrazia”. La “grande vecchia casa di tutti” è l’America.
Trump non è stato meno magnanimo nel suo messaggio su Truth Social: “Quelli di noi che sono stati abbastanza fortunati da aver servito come presidenti capiscono che questo è un club veramente esclusivo e solo noi possiamo comprendere l’enorme responsabilità di guidare la più Grande Nazione nella Storia (in maiuscolo nell’originale). Le sfide che Jimmy ha affrontato come presidente vennero in un momento cruciale per il nostro Paese e lui fece quanto in suo potere per migliorare le vite di tutti gli Americani. Per questo, noi tutti gli dobbiamo un debito di gratitudine”. Naturalmente questo Trump “presidenziale” farà storcere il naso a chi lo giudica il peggior nemico della democrazia stessa, ma io penso si debba dargli credito in questa professione garbata, alta. È, dicevo sopra, la reale essenza della democrazia americana che regge da oltre 235 anni. È almeno lo stesso credito che dobbiamo dare (io glielo do) a Bill Clinton. Da presidente tenne l’eulogia al funerale di Richard Nixon nel 1994, invitando la gente a giudicarlo per tutto quanto aveva fatto in 50 anni di attività politica, e non a liquidarlo per il Watergate. L’ho imparato assistendo, nella Biblioteca presidenziale dello stesso Nixon in California, a un video che riproduceva per l’appunto il discorso del presidente democratico, in carica, per celebrare l’ex presidente repubblicano (da “pensionato”, Nixon era persino stato tra i consulenti di Clinton in politica estera).
Nella Biblioteca di Carter, ad Atlanta, ho appreso che il futuro presidente democratico, nato nel 1924 a Plains in Georgia, uno dei sette Stati protagonisti della secessione che portò alla Guerra Civile, era stato allevato in una famiglia-simbolo del lungo travaglio sociale-razziale dell’America: il padre era un ostinato difensore della segregazione mentre la madre, fervente abolizionista, fece da modello virtuoso per il figlio.