Il 20 gennaio a Washington ci sarà una inaugurazione presidenziale o una beatificazione? Quattro anni fa Donald Trump era su quella stessa piazza, uno sconfitto che non aveva accettato di esserlo. Ma quella data del 2020 – due settimane dopo il vergognoso assalto al Parlamento dei suoi fan più facinorosi che hanno sfregiato la democrazia USA nel momento simbolico del passaggio dei poteri – è ora solo quella, mediana nel calendario, tra la vittoria del 2016 e quella del 2024.
Come l’America sia riuscita a “digerire” la vicenda politica e umana di un simile presidente – capace di navigare tra sorpresa, baratro e rivincita – è già roba da storici, che avranno anche il suo secondo mandato da studiare. A noi contemporanei è solo dato di osservare il presente, ognuno con la reazione dettata dal nostro sentire.
Questa rubrica si chiama Controcanto e il titolo va rispettato. “Beatificazione”, l’ipotesi che ho usato all’inizio, è il giudizio critico di un conservatore che non aveva espresso mai alcuna simpatia verso Biden e, seppure dopo essersi augurato di vedere sulla scheda due nomi diversi dai due sfidanti del 2020, non ha poi avuto dubbi nella scelta tra Trump e Harris. Nell’assistere oggi alla sfilata di ex avversari del mondo industriale e mediatico, con gli assegni in mano, alla corte di Mar-a-Lago, ho pensato alla ridicola e affrettata attribuzione del premio Nobel della Pace a Barack Obama nell’ottobre del 2009, nove mesi dopo essere entrato nella Casa Bianca.
Imbarazzante agli occhi di ogni osservatore serio perché il neo-presidente dem non aveva ancora combinato nulla e in politica estera la sua performance successiva registrò più fallimenti (Siria, Isis, Libia..) che successi (?). È vero che gli apologeti di Obama erano guidati da interessi ideologici (malriposti per me, ma è un altro discorso) mentre gli executive dell’High Tech e dello spettacolo si sono esibiti in genuflessioni di interesse: da Jeff Bezos di Amazon a Tim Cook di Apple, da Mark Zuckerberg di Meta a Bob Iger di Disney, che passerà alla storia per essere il primo donatore ufficiale alla futura Biblioteca Presidenziale di Trump (per ben 16 milioni di dollari, nell’ambito dell’accordo extragiudiziale nella causa per diffamazione promossa dal presidente eletto contro la controllata TV ABC).
Magari questi personaggi hanno modificato nel tempo il loro giudizio politico su Trump, ritenendo le accuse di fascismo e i paragoni con Hitler di Biden e Harris oltre decenza, ma il balzo resta impressionante. E non sono riallineamenti solitari. Sul New York Times Bret Stephens, un conservatore Never Trump della prima ora, ha scritto un editoriale dal titolo “basta con i Never Trump”, suggerendo ai Democratici di cambiare strategia e tattica, poiché quella aggressiva del passato non ha pagato, e di trattare Trump con lucidità ma senza stupide demonizzazioni. Venendo dal New York Times, è una evoluzione di rilievo nel senso del realismo. Del resto, i primi sondaggi post vittoria danno Trump costantemente sopra il 50%, un livello che prima era un miraggio e che oggi è il segno dell’accettazione popolare del nuovo leader.
Ma un Trump “sdoganato” non significa un Trump da santificare. Il giusto approccio è solo quello di essere oggettivi nel giudicarlo, perché ha ancora tutte le battaglie da fare e soprattutto da vincere. In politica estera deve essere protagonista di una pace che sia accettata a testa alta da Zelensky e con soddisfazione dal popolo ucraino; in Medio Oriente deve garantire la strategica sicurezza di Israele, appoggiandolo nella sua guerra di sopravvivenza contro l’Iran e contro i fantocci Hamas e Hezbollah. In casa, deve ridurre l’inflazione e favorire crescita, occupazione e predominio energetico. Solo allora avrà di che riempire la sua Biblioteca ed essere accolto tra i presidenti “beati”, come JFK e Reagan.