Mi venne incontro nel patio con un sorriso e mi porse la mano. “Benvenuto. Prego, si accomodi”. Entrammo in una dependance del palazzo presidenziale di Damasco e mi fece cenno di sistemarmi su una poltrona di fronte alla sua. Nel divano a fianco era già seduto l’interprete: un tenore che masticava un po’ di italiano orecchiato sui libretti operistici. Fin dalle presentazioni facevamo reciprocamente fatica a intenderci. Ci tolse di imbarazzo l’anfitrione, Bashar al-Assad, che mi chiese in inglese se desideravo un caffè o una bevanda. L’accoglienza era del tutto informale. Come se la mia fosse una visita di cortesia e non un confronto giornalistico a conclusione di una lunga trattativa. Il leader siriano concedeva pochissime interviste alla stampa internazionale. Per farmi conseguire questo privilegio fu decisivo l’intervento dell’allora ministro dell’Informazione, un medico estroverso che si era laureato in Italia e che mi aveva preso in simpatia.
Era la primavera del 2008. Assad aveva 42 anni ed era al potere da quasi otto. Aveva raccolto l’eredità del padre Hafez, di fede alawita (ramo eterodosso e minoritario dello sciismo), uno dei leader storici del partito Baath che si era distinto per la spietatezza con cui aveva governato lungo un trentennio la Siria. Nel 1982 il fratello Rifaat sterminò ad Hama circa 40 mila “fratelli musulmani” insorti contro il regime. Un mese dopo a un inviato di Newsweek che gli chiese conto di quella strage Hafez rispose sbrigativamente: “Quel che è stato è stato”.
Bashar non era destinato alla carriera politica. Di carattere apparentemente mite e di indole un po’ pigra, la dinastia lo aveva decentrato a Londra dove studiava da oculista e frequentava i salotti buoni della nomenclatura araba introdotta nella City. È lì che aveva conosciuto l’affascinante e occidentalizzata Asma, brillante esperta di informatica, che diventò sua moglie. Il successore designato era il fratello Basil, più carismatico e aggressivo, che nel ’94 perse però la vita in un incidente stradale (provocato, secondo alcuni retroscenisti, da qualcuno dei numerosi nemici che si era fatto per i suoi metodi brutali).
Nel 2008 Bashar era ancora considerato un dittatore riluttante. Dopo un primo periodo di aperture (la primavera di Damasco) in cui dialogando con gli intellettuali sembrava intenzionato a concedere spazi di libertà, era stato ingabbiato dall’apparato del regime ancorato al retaggio sovietico. Come se ci fosse una forza al di sopra della sua volontà a cui non poteva o non riusciva a opporsi nonostante disponesse dei pieni poteri. Per questo, anche se non aveva né le sembianze né aveva mai ostentato l’autoritarismo dei satrapi mediorientali, mi ero accostato alla sua figura con una certa prudenza. Era indecifrabile lo scarto fra le sue maniere garbate, il fair play londinese, e la ferocia che, sia pur per interposti apparati, gli veniva attribuita nella repressione delle voci dissidenti.
Anche l’inizio della conversazione scivolò via in tono confidenziale. Ostacolato solo dalle approssimative e sgrammaticate traduzioni del tenore. Tanto che all’ennesimo sfondone, ci scambiammo una rapida occhiata di intesa e decidemmo di proseguire il colloquio direttamente in inglese, senza moleste mediazioni. L’intervista partì dai massimi sistemi. La situazione mondiale e il guazzabuglio mediorientale. Bashar affrontava anche gli argomenti spinosi con un tono calmo e riflessivo e un’apertura mentale più da leader occidentale che da autocrate arabo. Il che acuì in me il disorientamento fra il pregiudizio iniziale e la percezione in diretta (rivelatasi in seguito drammaticamente erronea) di una personalità ancora sensibile ai richiami della cultura europea in cui si era formato.
Non esitò a cercare una formula gentile anche nel trattare il tema della dissidenza che era solita radunarsi nei fine settimana in un salotto della borghesia damascena. Lasciando capire che, se fosse dipeso solo da lui, avrebbe potuto allacciare perfino un dialogo con gli oppositori spiegando pacatamente le sue ragioni senza disegni persecutori.
Il dialogo si fece quasi amichevole quando si attaccò a parlare dei suoi hobby privati. Il basket, la passione per le macchine, i videogame con i figli. Mi ero riservato per la fine la domanda più cattiva: “Dicono che lei è un dittatore”. Esplose in una risata. E chi lo dice?
-Bush, per esempio.
-E lei crede ancora a Bush? Ma se non ci credono più neanche gli americani…
Solo tre anni dopo scoppiarono le rivolte arabe. E la Siria divenne un inferno. L’immagine di Bashar si deturpò nella ferocia di una repressione barbara. A tenerlo a galla (Obama aveva già decretato la sua defenestrazione) si prodigarono la Russia e l’Iran nella convinzione che di fronte all’incalzare dell’Isis potesse rappresentare ancora un male minore. Fino al rapido e imprevisto epilogo. Che lo consegna alla storia non come un dittatore riluttante ma come l’effettivo erede del padre Hafez, uno dei tiranni più crudeli del Medio Oriente.