Immaginiamo, per un attimo, un palazzo in fiamme. Arrivano due squadre di pompieri: i classici eroi delle nostre tragedie urbane indossano le medesime divise, parlano la stessa lingua, guardano il fuoco, la gente che si getta dalle finestre lambite dalle lingue di morte e si mettono all’opera. Da una parte potenti getti di acqua inondano l’edificio, dall’altra, però, dai tubi anti-incendio, il liquido è benzina. Il Medio Oriente è in fiamme da oltre un anno; decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani, centinaia di migliaia degli abitanti di Gaza sono senza casa e senza la loro terra; nel non distante Libano si accumulano i morti e i feriti; decine di villaggi sono stati eliminati, palazzi nella capitale Beirut sono crollati sotto le mega-bombe americane fornite all’aviazione israeliana.
E i comandanti dei “vigili del fuoco” giocano. O fanno politica. In Ucraina il gioco è diventato palese questa settimana con la decisione di Joe Biden, presidente uscente degli Stati Uniti, di autorizzare il leader dello stato europeo sotto assalto a utilizzare i mega missili americani contro il territorio russo. Donald Trump ha vinto le elezioni, il perdente cerca di rendergli la vita futura complicata, di impedirgli di imporre all’Ucraina di negoziare con Putin un accordo “perdente” per Kiev. In Medio Oriente sta accadendo più o meno la stessa cosa, anche se l’obiettivo del grande gioco dei due leader (visto il comportamento ambiguo della Casa Bianca negli ultimi anni) si assomiglia nonostante le loro divergenti dichiarazioni pubbliche. Biden parla ancora di uno stato palestinese accanto a Israele; Trump vuole solo (non si sa come) mettere a riposo per sempre la questione palestinese.
I due leader hanno ancora due mesi per farsi i dispetti. Sessanta giorni. Ossia quanti morti? Nessun americano, pochi israeliani (anche se il bilancio soprattutto di civili e militari feriti aumenta). Palestinesi non contano e nemmeno i libanesi.
È sul fronte libanese che si sono mossi i diplomatici di Washington. Una tregua è vicina, dicono, un nuovo trattato di pace tra i due paesi mediorientali, ancora distante. Di Gaza e della questione palestinese, invece, non si parla: il premier Netanyahu e i suoi falchi (estrema destra, destra, centro e anche una parte dei moderati) continuano a uccidere, distruggere e si rifiutano di parlare di un “dopo”. Anzi, dicono ad alta voce, per almeno un paio di anni la Striscia di Gaza resterà in mano alle forze armate di Tel Aviv e quello che rimane della popolazione palestinese sarà confinata nella regione meridionale del già minuscolo enclave prigioniero di Israele in riva al Mediterraneo.
Biden e Trump giocano. E c’è, nella grande partita mediorientale, che talvolta sfiora le mosse dei tre riguardo all’Ucraina, anche un terzo giocatore. Benjamin Netanyahu ha almeno due obiettivi: salvare se stesso e portare avanti con successo il progetto sionista di suo padre, grande ammiratore e collaboratore di Zev Jabotinsky, grande amico e collaboratore di Benito Mussolini. In altre parole, sfuggire ai processi per reati che precedono l’assalto di Hamas al sud d’Israele e alle probabili condanne che la giustizia israeliana ha in serbo per lui e consolidare e far accettare dal mondo la carta geografica d’Israele come viene disegnata dal suo governo: dal Mediterraneo al fiume Giordano. Almeno due obiettivi? Forse un terzo di cui si comincia a parlare in questi giorni.
Netanyahu, secondo alcune informazioni, quella tragica mattina del 7 ottobre 2023 sarebbe stato informato delle mosse militari di Hamas in ampio tempo per bloccare o limitare l’operazione, ma avrebbe deciso, per motivi politico-strategici, di non dare l’allarme.
È un’ipotesi che, se vera, rafforzerebbe il campo anti-Netanyahu ma non della sua linea politica. E potrebbe, nel breve tempo, bloccare le iniziative diplomatiche in atto fino all’arrivo alla Casa Bianca del nuovo presidente.