Giunti alla fine di questa epica corsa elettorale per la Casa Bianca 2024, ho letto interpretazioni affrettate, lapidarie, persino cattive su Kamala Harris. “Non è un leader”, è una “banderuola al vento”, “ha un passato di estrema sinistra”, come se non fosse possibile cambiare posizione una volta che passi da un’elezione locale a un’elezione globale. Il leader invece è Donald Trump, grazie alle sue iperboli verbali e ai suoi eccessi retorici che suggeriscono, come è successo oggi, persino di sparare sui giornalisti.
Chi attacca la candidata democratica come la peggiore possibile, simbolo di un partito allo sbando, non tiene conto che oggi corrono per il Congresso candidati democratici centristi come John Avalon, colto, di valore, un rassicurante giovane quarantenne. E cade nell’abile trappola predisposta dallo stesso Trump, con il suo maniacale eccesso di protagonismo: il voto deve essere per chi riesce a fare spettacolo, per il narcisismo rassicurante di chi pretende di essere l’unico depositario certo delle soluzioni necessarie per un Paese allo sbando. Ma non sarà per questo che nella serata di martedì 5 novembre si metterà in urna l’ultimo voto dopo questa estenuante maratona elettorale. Deve essere invece chiaro che moltissimi americani hanno capito benissimo che un voto per Harris non sarà per avere un leader malato di protagonismo, ma per una gestione collegiale degli affari di Stato americani. Avrà votato, insomma, in coscienza e coerenza, per un’amministrazione Harris e contro una gestione umorale, spocchiosa, intransigente alla Donald Trump. Tanto più che questa volta, se vincerà, l’ex presidente non commetterà più l’errore di scegliere persone qualificate per ruoli chiave nella gestione degli affari di Stato, come furono – e ne cito uno per tutti – Mike Kelly. Questa volta i ministri prescelti saranno fin da subito “yes men” appiattiti sull’ultimo capriccio di un Presidente il cui ego decisionista sarà soltanto rafforzato da una vittoria elettorale.
È la differenza fra assolutismo e collegialità, evidente subito dopo la prima presidenza Trump, che ha definito l’amministrazione Biden, da cui Harris proviene. Pensiamo alla dimensione di statista che ha acquisito il segretario di Stato Tony Blinken o alla statura del segretario al Tesoro, Janet Yellen, ex Presidente della Fed o alla credibilità di Gina Raimondo, segretario al Commercio, ex governatore di Rhode Island e sua volta materiale presidenziale. Ciascuno di questi protagonisti dell’amministrazione Biden ha portato una sua agenda economica e politica frutto di un lavoro pluridecennale, di una esposizione diretta agli affari interni e internazionali. E ciascuno ha potuto brillare di luce propria allargando il cerchio della credibilità politica degli Stati Uniti d’America. La vera leadership non è accentrare, rivendicare, attaccare, ma delegare. Trump non ne sarà mai capace. Harris sì, e molti più americani di quanto si possa pensare hanno ben chiara la differenza. Non è detto che prevarranno al voto finale. La corsa resta incerta. Ma anche in caso di una sconfitta, non dovremo mai perdere di vista l’importanza della collegialità di governo: in molti propogono e discutono, il Presidente poi sceglie. Con Trump avverrà esattamente il contrario, viene emesso un’ordine presidenziale da eseguire subito, a tambur battente, pena il licenziamento in un regime del terrore. Proprio come è successo a Kelly, a John Bolton e a decine di altri quando hanno cercato di resistere l’assurdità di certi ordini presidenziali. Ricordate una figura di statista emersa negli anni di Trump al di fuori del Presidente? Io no. E non credo di sbagliarmi.