Sembrava destinata ad essere una morta gora, la decina finale di giorni della campagna. Donald e Kamala al foto finish, condannati a spartirsi in perfetta parità statistica l’incertezza e le speranze. E invece è scoppiata anche nel 2024 la “sorpresa d’ottobre”, come nelle migliori tradizioni.
No, non alludo allo scoop vecchio di un lustro delle dichiarazioni dell’ex capo di staff di Trump, John Kelly, il quale, cacciato dal suo boss con l’accusa di incompetenza, s’è vendicato dipingendolo come un fascista. Tanto per cambiare. Si sa che tutti i licenziati bruscamente sfogano l’imbarazzo come gli riesce. È vero, Kamala Harris si è aggrappata alle sparate dell’ex generale pensionato, e all’ultimo acquisto Liz Cheney, per trovare qualcosa da dire.
Del resto, se non riesci nemmeno a rispondere a tono ad un giornalista della CNN (!!!) che ti chiede “perché hai fatto esplodere l’immigrazione clandestina quando eri la Zarina del confine?”. O se subisci l’umiliazione di sentire che David Axelrod, il navigato e simpatetico stratega di Obama, definisce la tua prestazione oratoria alla townhall “word salad”, insalata di parole in pubblico? O se devi, e questo non te l’aspettavi proprio, registrare che l’oracolo della finanza vincente Warren Buffett si rifiuta di sostenerti, dopo che lui aveva votato e detto di votare il candidato democratico nelle tre elezioni precedenti? Ecco, si capisce la fuga nell’offesa senza appello all’avversario, la riduzione della propria campagna a megafono di demonizzazione di quella opposta: è l’arma nucleare, o la va o la spacca, è la terra bruciata. Ma quest’atteggiamento del “non fare prigionieri”, per norma di logica e di prudenza, una vittoria la segue, non la precede.
E si arriva alla sorpresa di stagione. Che non è nulla di clamoroso, di strano, di imprevisto. È anzi la cosa più normale che esista, negli ultimi mesi che portano alle urne: il sondaggio.
In questo caso, il sondaggio del Wall Street Journal, bipartisan, curato dai due tecnici David Lee (GOP) e Michael Bocian (DEM). A fare il botto è la sostanza di quanto emerso, a partire dalla rilevazione basilare sulle preferenze per l’uno e per l’altra. Trump non solo è passato in vantaggio a livello nazionale, con il 47% contro il 45% per Harris, alla classica domanda “chi votereste se doveste votare oggi?”. Il resto ha risposto Robert F. Kennedy (per il 2%) e “sono indeciso” (per il 3%). Va notato che RFK è diventato un esplicito alleato di Trump da diverse settimane, e potrebbe forse spingere il residuo seguito che ha verso di lui. Infatti, se la sfida fosse ristretta ai due candidati, gli interpellati se votassero oggi sarebbero per il 49% per Trump e per il 46% per Harris, un distacco di tre punti.
Ma quello che rende la rilevazione di fine ottobre del WSJ particolarmente significativa, e negativa per Kamala, è che i due punti attuali di vantaggio per il repubblicano sono un ribaltone (o almeno un ribaltino, se si vuole essere prudenti) dalla situazione di agosto. Allora era Harris davanti di due punti, ma è chiaro, davanti ai numeri di adesso, che era stato l’effetto del sollievo-choc dei democratici di non avere più il perdente sicuro Biden sulla scheda a premiare il volto nuovo, e misterioso, di Kamala.
Via via che il pubblico ha cominciato a conoscerla, a partire dal giudizio da dare alla performance dei suoi 4 anni di vicepresidenza rispetto alla performance dei 4 anni di Trump, le azioni di Kamala sono precipitate. Ben il 54% della gente disapprova il suo lavoro alla Casa Bianca, con il 42% che lo approva, ossia uno scarto negativo di 12 punti. Viceversa, il 52% dei votanti di oggi approva il lavoro che aveva fatto Trump durante il suo mandato, contro il 48% che lo disapprova. È un saldo positivo per Trump di 4 punti, che potrebbe essere chiamato il “tasso della nostalgia”. Non sarà una sorpresa scandalistica, ma che cosa poteva leggere di peggio Kamala, oggi?