Difficile prevedere oggi come finirà la brutta nottata, per Biden, del primo dibattito con Trump. Il New York Times e il Wall Street Journal, per citare i due più autorevoli tra i tanti quotidiani che hanno commentato la debacle nel modo più autorevole e formale con i rispettivi editorial board, sono nel partito di chi chiede a Biden di fare un passo indietro. Perché è la via più efficace per fermare Trump, il primo; per il bene del Paese, che non dovrebbe essere rappresentato da un 81enne palesemente inadeguato al ruolo, il secondo.
Ci sono calcoli politici discordanti, nell’opinione pubblica e negli stessi due partiti, sulla convenienza o meno di arrivare alla sfida Biden-Trump, e ovviamente sono tutti ragionamenti in funzione del rispettivo risultato. Ieri, a gettare benzina sul fuoco, sono usciti due sondaggi post dibattito sulle intenzioni di voto, contemporaneamente sul New York Times e sul Wall Street Journal, concordi nell’esito. C’è stato un allargamento del distacco tra i favorevoli a Trump e i favorevoli a Biden, che era di tre punti prima, ed è raddoppiato a sei punti dopo. Ma è molto azzardato pensare ad un trend irreversibile, perché tre punti di rimbalzo nei giorni immediatamente successivi a favore del candidato che ha vinto il confronto televisivo sono la norma: lo dice la statistica, citata dal New York Times.
Insomma, bisognerà avere un po’ di pazienza per capire se la corsa di Biden è davvero all’ultimo giro. Ma la pazienza, ossia il tempo, è proprio quello che manca ai Democratici. Sono attanagliati dal terrore che il loro candidato ufficiale, quello per il quale milioni di elettori Democratici hanno espresso il loro voto, a livello quasi bulgaro, nelle primarie più inutili della storia, venga battuto nella rivincita con Trump. Invece è chiaro adesso, con il senno che dovevano dimostrare, che le primarie Democratiche dovevano essere serie, ossia competitive. Con in campo i nomi dei governatori, illustri, che adesso appaiono come i salvatori della patria dai loro bastioni sicuri in California, Michigan, Pennsylvania. Biden, ora, avrebbe ben altra forza se avesse vinto, o ci sarebbe una alternativa temprata da sei mesi di riflettori nazionali se avesse perso nelle primarie.
A quattro mesi dal voto, l’impresa di un partito di inventarsi una nuova leadership nazionale è pressoché disperata. Questo è l’argomento tecnico più valido per chi insiste, e non solo nella famiglia Biden, che i sondaggi miglioreranno. Ma è anche un ragionamento politico realista. Facile, come fanno in tanti a sinistra (o a destra, per interesse del GOP) buttare lì dei nomi, siano Newsom o Whitman o Shapiro, che gli americani fuori dai loro stati non hanno mai visto. Oppure sparare una Michelle Obama, citando magari un sondaggio ad hoc che la vedrebbe stravincere contro Donald. Nella politica concreta si devono fare i conti, appunto, con la realtà. Che oggi, nel partito Democratico, si chiama Kamala Harris. La legittima vice che subentrerebbe a Biden se lasciasse di colpo la Casa Bianca, o che vanterebbe una garanzia alla nomination di natura identitaria: donna e nera, chi le farà la guerra tra i DEM? Peccato che ha sempre avuto nei sondaggi un voto anche peggiore del suo capo, Biden.
E allora? Io penso che ogni giorno che passa aumenta il caos nel partito Democratico, e il caos è un viatico letale al voto di novembre. Sia per la presidenza sia per il Congresso. La frustrazione fra i deputati, che devono riconquistare il loro seggio correndo fianco a fianco a un presidente debolissimo, sta producendo mostruosità “istituzionali”. Una è firmata Joe Morell, deputato semi sconosciuto di New York: ha detto che presenterà un emendamento costituzionale opposto al verdetto della Corte Suprema che ha stabilito, qualche giorno fa, che un presidente (oggi Trump ma domani varrebbe anche per Biden) è immune per gli atti compiuti nell’esercizio del suo ruolo. Un’altra idea senza alcuna prospettiva è di Alexandria Ocasio Cortez, capa della squadra dei Democratici Socialisti, che vuole presentare alla Camera un articolo di impeachment contro i sei giudici conservatori che hanno approvato il verdetto di cui sopra.
A prescindere dal nome di chi ci sarà sulla scheda di novembre contro Trump, è proprio il clima di caos interno al partito Democratico il fattore che potrà far pendere la bilancia a favore del GOP.