Mentre il Papa invocava una cultura della Pace, come presupposto e insieme sostanza della giustizia tra gli uomini, e l’Amministrazione americana sollecitava per l’ennesima volta, come auspicio per l’anno a venire, una tregua o quanto meno il rispetto dei diritti umanitari nella guerra senza quartiere condotta a Gaza dal suo alleato Israele, il signor Benjamin Netanyahu non trovava di meglio che affermare che la guerra nella Striscia di Gaza è un «atto di moralità ineguagliabile»: «continueremo la nostra guerra difensiva, la cui giustizia e moralità non hanno eguali», «Israele agisce nella maniera più morale possibile a Gaza».
Una dichiarazione che è una vergogna politica e morale, e prima ancora un insulto all’intelligenza di chi non sia accecato o motivato dall’odio, dalla voglia di sterminio del nemico, come persino Abu Mazen, alla ricerca di una qualche credibilità tra i suoi, non ha potuto fare a meno di rinfacciargli. La dichiarazione di Netanyahu era la risposta all’iniziativa di un Paese tragicamente esperto della negazione dei diritti umani, il Sudafrica, che lo scorso venerdì ha denunciato Israele per genocidio davanti alla Corte internazionale di Giustizia, per la totale sproporzione della rappresaglia all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre.
Ritengo sia venuto il tempo, nel dibattito pubblico, di non girare più attorno alle parole. Se terrorismo è uso della violenza per suscitare nel proprio nemico terrore, il terrorismo può essere gesto singolo di un cane sciolto in qualche modo aizzato, strategia di un movimento politico privo di statualità per perseguire i propri obiettivi, strategia pianificata di uno Stato per gestire chi attenta alla sua sicurezza o mette in questione interessi ritenuti vitali.

Ora è senza dubbio certo che l’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato abietto terrorismo. Ma è altrettanto certo che non meno abietto è il terrorismo di Stato che spudoratamente Netanyahu ci annuncia ad inizio anno che durerà a lungo, magari per tutto il 2024 e che dobbiamo farci l’abitudine. L’aggravante è che mentre il terrorismo di Hamas può essere ascritto – come hanno fatto molti esponenti israeliani e non pochi commentatori nella stampa mainstream a livello internazionale – alla “bestialità” umana di cui i palestinesi sarebbero espressione, noi occidentali (tra cui dovrebbe esserci anche Israele) a questa categoria della bestialità umana non vorremmo o non dovremmo essere ascrivibili, e per evitarsela non basta avere addosso la divisa di un esercito statale. In argomento, Israele per la sua stessa tragica storia dovrebbe sapere benissimo di cosa si parla su bestialità senza uniformi e su bestialità con uniformi.
È tempo che l’opinione pubblica, che non sta sugli spalti in tribuna a tifare per gli uni o per gli altri nel dramma che si vive in Palestina da 75 anni, sappia mostrare equivicinanza – a Israele e ai palestinesi – alle loro ragioni e alle loro sofferenze, ed equidistanza dai loro torti e dalle loro violenze. Ma questa equivicinanza e questa equidistanza (che per altro serve all’Occidente e in primis agli USA se vogliono avere credibilità sui tanti teatri di crisi aperti nel mondo) per non essere una mera petizione di principio moralistica, devono farsi una proposta di gestione internazionale della crisi in Palestina.
La formula dei due Stati non ha più senso. Dopo 75 anni, non c’è più “terra” perché i palestinesi abbiano uno Stato. Ne è possibile un unico Stato con eguale cittadinanza tra i due popoli. Una pura utopia immaginare che tra venti o cento anni elezioni “democratiche” possano portare al governo in questo Stato iperbolico l’espressione di una maggioranza demografica arabo-palestinese.
Allora cosa fare? Probabilmente solo far diventare un mandato amministrativo europeo quel che resta dei territori che dovevano diventare lo Stato palestinese, potrebbe dare sicurezza ad Israele e dignità autogovernata sotto la tutela europea alle istanze di autonomia del popolo palestinese. L’alternativa è solo ondate terroristiche generazionali da una parte, risposte genocidarie dall’altra.