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January 26, 2023
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Amina Mohammed: una musulmana in soccorso delle donne nell’inferno talebano

Emozionante conferenza stampa al Palazzo di Vetro della vice Segretario Generale dell'ONU tornata dal suo viaggio in Afghanistan

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Amina Mohammed: una musulmana in soccorso delle donne nell’inferno talebano

UN Deputy Secretary-General Amina Mohammed (fourth from left), UN Women Executive Director Sima Bahous, Assistant Secretary-General of Political and Peacebuilding Affairs Khaled Khiari and the delegation, arrive at Kabul Intl Airport for a four-day official visit to Afghanistan. (UN Photo/Mohammad Akram Darwish)

Time: 10 mins read

Amina Mohammed, vice Segretario Generale dell’ONU, in questi primi giorni del 2023 era la persona giusta, al momento giusto, per essere nel posto più infernale che esista oggi per le donne: l’Afghanistan. Con un’alta delegazione delle Nazioni Unite ha viaggiato due settimane tra Kabul, Herat e Kandahar per tentare di salvare le donne afghane da chi pretende, come ha detto Mohammed ai giornalisti, di “farle precipitare nel XIII secolo”.

Mohammed, 61enne nigeriana, è una donna musulmana che ha potuto guardare negli occhi i talebani e replicare punto su punto sull’argomento del suo viaggio: l’Islam e la condizione femminile.

In una conferenza stampa emozionante, a tratti commovente, Mohammed ha fatto capire di non essere indietreggiata di un millimetro quando ha avuto davanti i governanti talebani di varie provincie dell’Afghanistan. Mentre procedeva nel suo racconto, rispondendo alle domande con certi sguardi, gesti e sorrisi, demoliva la tentazione dell’automatica interpretazione di una religione islamica che imporrebbe l’oppressione della donna.

Mohammed ha ribadito come secondo l’ONU, per intraprendere un dialogo efficace con i talebani, ci sia bisogno di un fronte unito nei paesi della regione. Quindi anche di visite in Turchia, Indonesia e in alcuni degli Stati del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita.

Tanti gli incontri che Mohammed ha descritto così: “A Kabul le donne mi hanno chiesto: ‘Incontraci prima e non per ultime, così senti davvero quello che vogliamo dire prima di parlare ai talebani’. Sono state molto chiare: erano donne di ONG, che lavoravano con la comunità internazionale. Erano il nostro staff, le donne afgane nel nostro sistema, la nostra Missione lì. E abbiamo anche parlato con ragazze più giovani che facevano parte del lavoro in corso con UN Women (…) Ci siamo trasferite a Kandahar. Abbiamo incontrato la Shura, l’ulema che emana gli editti, le leggi. E abbiamo incontrato l’ufficio del governatore, il vice governatore e il suo gabinetto. Ad Herat abbiamo visitato un mercato dove di fatto le donne non potevano entrare. Alcune erano lì perché i loro mahram venivano con loro, ma soprattutto abbiamo sentito dalle donne che ora non potevano più avere l’istruzione o l’acquisizione delle competenze che hanno per farle continuare a lavorare”.

Ai talebani, dice Mohammed, “abbiamo ricordato che anche nel caso in cui parlavano di diritti, editti che avevano promulgato per proteggere le donne, con una mano stavano dando dei diritti e con l’altra li toglievano, e questo non era accettabile”.

Deputy Secretary-General Amina Mohammed (centre left) meets Taliban de facto Foreign Minister Amir Khan Muttaqi, in Kabul, Afghanistan. She was accompanied by UN Women Executive Director Sima Bahous and a high-level delegation. (UN Photo/Mohammad Akram Darwish)

Mohammed ha replicato così ai talebani che difendevano i loro editti: “Quando hanno iniziato a parlarci dei principi umanitari, abbiamo ricordato loro che in questi la non discriminazione era una parte fondamentale, e che stavano spazzando via le donne dal posto di lavoro. Sullo specifico, il tipo di impatto che stavano avendo nel campo medico e in quello educativo. Abbiamo avuto alcune esenzioni sulla parte medica e sull’istruzione. Dobbiamo mantenere, spingere tutti i limiti… una linea molto sottile da navigare”.

Così i talebani hanno cercato di giustificare le loro decisioni, ma Mohammed non ha concesso nulla: “Loro dicono che vogliono creare un ambiente che protegga le donne. La loro definizione di protezione sarebbe, direi, la nostra di oppressione…. Abbiamo insistito su una serie di altre questioni su come queste esenzioni potessero essere estese fino in fondo. Ma non abbiamo mai visto nella storia dei talebani revocare alcun editto. Quelle che abbiamo visto sono le esenzioni che, si spera, se continueremo a spingerle, annacqueranno gli editti al punto da riportare le donne e le ragazze sul posto di lavoro”.

Mohammed ha insistito su come “il ruolo dei paesi islamici e dei paesi vicini prende molto con una presa di posizione, come abbiamo visto nella dichiarazione dell’OIC e nella dichiarazione della Turchia. E ogni volta che andavo in uno di questi paesi musulmani, rafforzavamo il fatto che l’Islam non vietava alle donne l’istruzione o il posto di lavoro”.

Deputy Secretary-General Amina Mohammed (seated at dais) briefs reporters on her recent trip to Afghanistan. Standing at the podium is Stéphane Dujarric, Spokesperson for the Secretary-General. (UN Photo/Loey Felipe)

La prima domanda è andata subito al nocciolo della questione, citando un articolo pubblicato nel 2021 proprio da Amina Mohammed in cui scriveva: “Educare le ragazze non è un’eresia. È coerente con il primo comandamento della fede. La prima parola del Corano rivelata al Profeta Maometto fu… la prima parola fu ‘leggere'”. Ha quindi identificato “Al insan”, il termine arabo di genere neutro per umano, come destinatario degli insegnamenti di Dio. “La lettura è lo strumento e la conoscenza è l’obiettivo per tutti i musulmani indipendentemente dal sesso”. Quindi la domanda: questo tipo di discussione agli interlocutori in Afghanistan è stata fatta? Come hanno risposto?

“Assolutamente sì” ha replicato decisa la vice del Segretario Generale Antonio Guterres, che ha aggiunto: “Ho usato tutto ciò che so di avere nella mia cassetta degli attrezzi per cercare di difendere e recuperare i diritti delle donne e uno di questi è stato dire loro che io, come loro, sono una musulmana sunnita. Loro sono la scuola di pensiero Hanafi, io sono la scuola di pensiero di Maliki, ed entrambe hanno ragione. Tuttavia, quando si tratta di impedire l’istruzione delle donne e i loro diritti, non siamo d’accordo e il giudice supremo sarà Dio. Penso che in un ambiente conservatore come il loro, probabilmente mi sono spinta un po’ oltre perché le reazioni che ho avuto erano come se mi stessero facendo un favore ad ascoltare. Era difficile per me essere lì, a parlare con loro. Molte di queste persone conservatrici non ti guardano nemmeno negli occhi, quindi è facile, in due giocare a quel gioco. Allora nemmeno io ti guardo. Ma è molto importante che abbiamo avuto l’opportunità di parlare, e io l’ho fatto, e ho dato tanto quanto penso che abbiano dato loro, spingendo al amassimo”.

Ad Amina è stato chiesto se l’avessero ascoltata o ignorata: “Era chiaro che volessero un riconoscimento. È chiaro che apprezzano e vogliono l’aiuto umanitario e quindi per questo dovevano ascoltarmi, non necessariamente perché lo volessero. Ma non facciamo errori. Si parlava con talebani fedeli all’emiro e all’emirato. Quindi, se possiamo spingere e tirare con alcuni di quelli che torneranno a Kandahar e ci daranno esenzioni, facciamolo. Ma non fraintendiamo, queste non sono persone con l’aureola sopra la testa”.

Deputy Secretary-General Amina Mohammed meeting Non-governmental organizations in Kabul, Afghanistan, along with UN Women Executive Director Sima Bahous and the high-level delegation. (UN Photo/Mohammad Akram Darwish)

Le viene chiesto degli incontri con le donne nel viaggio in Turchia, dove risiedono molte afghane fuggite. “In Turchia le donne ci sono state molto chiare sul fatto che avevamo bisogno di ascoltarle e riprendere i messaggi sui loro diritti e amplificarli. Alcune pensano che dovremmo impegnarci, continuare a impegnarci; altre no, che dovremmo semplicemente fermarci fino a quando i talebani si comportano bene, ma quello che è emerso da tutte quelle che abbiamo incontrato è stato che non puoi più minacciare condizionalmente i talebani… Stavamo cercando di trovare i punti di pressione, quali interessi avessero e come spingerli con ciò che abbiamo; penso che l’abbiamo fatto, penso che abbiamo trasmesso le voci delle donne. Abbiamo avuto ex parlamentari e ministri che ci hanno parlato prima che tornassimo. Bisogna ricordare che in Afghanistan, prima del ritorno dei talebani, c’era un’enorme speranza e l’espressione di quella speranza sono le molte donne che hanno ricevuto un’istruzione, che avevano ruoli decisionali, che erano leader in Afghanistan e che ora sono deluse. E quando ciò accade, l’ansia e il livello di paura tra le donne e il loro futuro sono enormi quanto palpabili”.

Le domande si susseguono e Mohammed non si tira mai indietro. Cosa avrebbe ottenuto alla fine? “È stato importante per me che i più moderati abbiano ascoltato… Dobbiamo, all’interno dell’Islam, parlare di più con i moderati su cosa questo significhi, non solo per l’Afghanistan ma anche per la narrativa di altri paesi musulmani, che si tratti dell’Iran o lo Yemen. Dobbiamo essere chiari sul fatto che si tratta di donne nel mondo musulmano”.

Per questo “l’idea, una proposta che le Nazioni Unite insieme all’OIC convochino insieme ad altri paesi una conferenza internazionale entro marzo sulle donne nel mondo musulmano, certo in Afghanistan, ma anche nell’intera regione. Ricordiamo, lo dico spesso, che quando Malala [Yousafzai] è stata colpita per ucciderla, ciò è avvenuto in Pakistan. Quindi c’è un problema regionale. C’è una regione che deve anche arrivare in prima linea con la pressione per i diritti delle donne nell’Islam. Abbiamo visto alcuni progressi in Arabia Saudita, per esempio. Ho insistito su quello quando cercavo una risposta dai talebani. Ho detto, beh sapete, siete della stessa scuola di pensiero con i sauditi e quindi vorremmo discutere di più su questo e sul perché c’è una tale differenza… Quindi è molto importante che i paesi musulmani si uniscano. È difficile. Non abbiamo un Papa nell’Islam. Abbiamo un Corano e abbiamo diverse scuole di pensiero, ma abbiamo dei diritti nell’Islam”.

A group of Afghan burqa-clad women walk on a street in Kabul city – ANSA

Ecco come Amina Mohammed ha duellato con i talebani proprio sul Corano: “Ho ricordato loro che, se si tratta di donne in affari, c’è la prima moglie del Profeta. Sallallahu Alayhi Wa Sallam. Che era una donna d’affari che ha finanziato l’Islam. Khadija ha finanziato l’Islam. E se il profeta voleva più conoscenza, consiglio e guida, è stata la moglie più giovane, Aisha, a darlo. Quindi Fatima all’istruzione… si è parlato di “Iqra”, la prima parola nel Corano, ed è… è una religione di luce. È una religione vivente e penso che gran parte di ciò che dobbiamo affrontare sia il modo in cui portiamo i talebani dal 13° secolo al 21° e questo è un viaggio, quindi non potrà avvenire dall’oggi al domani”.

Qualche domanda si sofferma sugli incontri sulla Shura a Kandahar, dato che sono lì che si prendono le decisioni. Hanno indicato se questi editti fossero in risposta al fatto che le Nazioni Unite non stanno dando loro di nuovo le credenziali?

La risposta di Amina Mohammed ancora una volta è stata senza esitazioni: “Gli stessi Shura non sono quelli che discuteranno di ciò che è già accaduto. Continueranno semplicemente a rafforzare ciò in cui credono e una delle cose che hanno ripreso e su cui mi hanno fatto una lezione sono stati i nostri principi umanitari. E la mia risposta è stata di ricordar loro che i principi umanitari includevano la non discriminazione, e quello che stavano facendo era discriminante per ogni donna e ragazza e che per noi sta costando vite umane, ha danneggiato le loro comunità e quindi dovrebbe essere riconsiderato…. Quando mi hanno detto che avevano una legge che avevano promulgato contro la violenza di genere, ho pensato che questa fosse un’opportunità per me di tornare indietro e dire ok, potete concedermi un’esenzione per le ONG che lavorano con questo?…  Penso che dobbiamo trovare il modo di coinvolgerli. Non possiamo lasciare e abbandonare le donne dell’Afghanistan. Non è quando diventa difficile che ce ne andremo. È quando diventa difficile che vedranno in noi il modo in cui siamo solidali con loro”.

La situazione è drammatica, ma per Amina Mohammed potrebbe anche essere peggio: “Il fatto che il terzo editto non fosse arrivato per me è stato davvero un grande vantaggio. Non sto dicendo che non arriverà. Ma sto dicendo che non è arrivato quando pensavamo che sarebbe arrivato. Pensavamo che sarebbe arrivato all’inizio di gennaio. Pensavamo che ci avrebbero messo in imbarazzo, sarebbe arrivato appena prima di entrare in Afghanistan, mentre eravamo lì. Ancora non è stato fatto. Quindi questo è un grande vantaggio. Penso che sia molto difficile da qui a New York determinare se spetta a noi dire che una vita può essere persa o meno, che le donne lotteranno rischiando di perdere la vita. Voglio dire, ho sentito donne che dicevano, per favore restate con noi e cercate di aiutarci. Non hanno detto di mettere la loro vita in pericolo. La decisione è molto difficile… come trovare i fili che stringiamo e quelli che sono leggermente più allentati perché pensiamo di dover salvare delle vite. Ma stringendoli ci sono altri aspetti che non dobbiamo affrontare. E questo è molto difficile”.

Afghan refugees in Pakistan hold placards during a protest as they demand the Taliban government to allow education for girls, in Quetta, the provincial capital of Balochistan province, Pakistan, 24 December 2022 – EPA/FAYYAZ AHMAD

A chi insiste nel chiedere se sia cambiato l’atteggiamento degli altri paesi islamici nei confronti dei talebani, Amina Mohammed risponde: “Prima che entrassi (in Afghanistan), c’era quasi silenzio da parte dei vicini su ciò che stava accadendo con l’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani. Ma nelle settimane precedenti, quando questi due divieti sono usciti, abbiamo sentito dall’OIC un linguaggio più forte, abbiamo sentito dall’Arabia Saudita, abbiamo sentito dalla Turchia. Ora abbiamo bisogno di più da loro. Abbiamo bisogno che mettano lì risorse che sosterranno lo sforzo umanitario che abbiamo, anche se forse è difficile per alcuni dei nostri partner oggi spiegare ai loro contribuenti perché lo stiamo facendo. Ma potrebbero esserci dei veri intransigenti che dicono di no, semplicemente non ce ne occuperemo più. Abbiamo così tanti problemi nel mondo e ci sono delle scelte da fare, perché ci sono esigenze contrastanti…  Ma le Nazioni Unite continueranno a resistere e ad agire, e per questo veniamo criticati. Ma forse ci sono altri che prenderanno il sopravvento perché non ho un mandato che me lo permette… Se manteniamo questa concentrazione, andremo molto più avanti. Se iniziamo ad essere solo concentrati nei motivi per cui non possiamo farlo, allora non lo faremo. Ma dobbiamo farlo perché queste donne contano, sono un riflesso di ciò che sta accadendo ai diritti delle donne in tutto il mondo. E se lo lasciamo cadere sull’Afghanistan, lo faremo su molti altri diritti delle donne”.

Ancora domande a raffica: ma i talebani hanno veramente ascoltato queste critiche sui loro editti? “Sì. Abbiamo spinto alcuni di questi messaggi piuttosto duramente e la reazione non è stata piacevole. Convincerli? Queste sono persone che pensano di proteggere le donne. Quindi, se chiedi loro se gli importa o no, loro ti diranno, sì, stiamo proteggendo le nostre donne. Da cosa le stiamo proteggendo? Dai valori occidentali, ti rispondono. Non hanno mai negato l’istruzione alle donne come diritto, né sul posto di lavoro. Quello che hanno detto è stato il tipo di istruzione e il tipo di lavoro. E in molti casi, per loro si trattava delle strutture di separazione, dell’hijab, del curriculum… Ma la mia definizione è che, no, non credo che a loro importi. Se lo facessero, non avremmo il divieto in primo luogo. Loro ti diranno, sì, ci teniamo perché vogliamo proteggere le nostre donne da valori e diritti che non sono nostri. Ma non siamo d’accordo con questo; siamo fortemente in disaccordo sul fatto che l’Islam predichi i diritti e i valori che stanno dettando”.

Ma Amina Mohammed quanto è stata diretta con i talebani? Ha usato ad un certo punto il bastone del “non otterranno così il riconoscimento internazionale che stanno cercando”? “Sì, l’abbiamo messo in gioco il riconoscimento, perché ne hanno parlato tutto il tempo elencando le cose che hanno fatto per ottenerlo: tolto la corruzione, fermato la produzione di papaveri, fatto un’amnistia… Sono andata in Afghanistan pensando che forse al più conservatore dei talebani non interessasse il riconoscimento; ma invece il riconoscimento internazionale è una leva che abbiamo e dovremmo mantenerla”.

Deputy Secretary-General Amina Mohammed briefs reporters on her recent trip to Afghanistan. (UN Photo/Loey Felipe)

Si chiede se esista un’area dove aspettarsi qualche progresso in termini di diritti delle donne in Afghanistan nel breve periodo. “Non sono pessimista al riguardo. Dico solo che è un lavoro duro. Ci vogliono gli strumenti giusti e l’idea che questa non sarà una soluzione rapida. Quindi, se c’è qualcosa che direi che abbiamo ottenuto dai talebani, penso che sia molto importante che stiano introducendo una legge contro la violenza di genere. Questo per me è un grande vantaggio e voglio sfruttarlo perché la violenza di genere è in aumento, sta aumentando in Afghanistan. E voglio chiedere conto ai talebani dell’attuazione di questa legge… Penso che sia molto importante per noi lavorare di più nelle province, in particolare in quelle che sono orientate in avanti. Ci sono sei a sette che sono veramente talebane, ma ci sono in tutto 34 province in Afghanistan. Quindi oltre 20 province in cui potremmo fare progressi. Dove l’istruzione primaria è consentita, ma solo il 23% circa ha un’istruzione. Potremmo fare di più per catturare la prossima generazione. Voglio cercare la luce in questa oscurità, che è piuttosto buia. Ma ci sono alcune luci, puntini di luce che possiamo afferrare e possiamo provare per illuminare l’oscurità”.

L’ultima domanda la facciamo noi. Ricordando come il Consiglio di Sicurezza abbia effettivamente approvato una risoluzione con cui protegge gli afghani che vogliono fuggire senza che i talebani possano vietargli di lasciare il paese, cosa dovrebbe ancora accadere in Afghanistan perché l’ONU arrivi a consigliare alle donne afghane di andarsene? E in questo viaggio, qualcuna delle donne che Mohammed ha descritto in situazioni disperate, ha forse già chiesto di essere aiutata?

“Nessuno ci ha chiesto di lasciare il Paese. Alcune delle donne che abbiamo incontrato che vivono già fuori, come in Turchia, volevano tornare indietro. Ma volevano un ambiente favorevole a cui tornare. Le donne di Herat con cui abbiamo parlato erano disperate, molte di loro parlavano di tornare indietro perché erano già scappate da Kandahar nel 1996 ed erano andate in Iran, alcune erano andate in Pakistan; ed erano tornate, non a Kandahar, ma a Herat, perché dicevano che era più libera e più favorevole alla loro vita. Ma ora stanno pensando di tornare da dove sono venute. Non ci stanno chiedendo di aiutarle ad andarsene, perché queste sono donne comuni, non sono donne di città. Lo abbiamo già visto in alcune delle nostre ONG che ci hanno comunicato il numero che risaliva oltre confine, in Pakistan. Ma lì ci sono preoccupazioni a causa della minaccia del terrorismo che rende più difficile il viaggio per i rifugiati che sono visti come  potenziali terroristi. Sì, penso che l’ansia della non speranza, che non ci sia un domani, stia spingendo molte donne a varcare i confini. Non ci chiedono di aiutarle, ma ce lo stanno solo dicendo”.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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