R2P: è l’acronimo per “Responsibility to Protect”, una norma internazionale riconosciuta dalle Nazioni Unite, che mira a garantire che la comunità internazionale fermi in tempo i crimini di atrocità di massa, di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. L’ONU adottò la norma della “Responsabilità di proteggere” all’unanimità nel 2005 durante un vertice mondiale, andando così a insidiare un principio considerato finora tabù: l’interferenza negli affari interni di uno stato. In questo modo si voleva dare una risposta al totale fallimento della comunità internazionale nel rispondere adeguatamente alle atrocità di massa commesse in Ruanda e nell’ex Jugoslavia durante gli anni ’90.
Per alcuni anni la R2P ha avuto una certa “popolarità” al Palazzo di Vetro, veniva invocata in diverse risoluzioni ONU e sembrava che la sua affermazione nel diritto internazionale fosse tutta in discesa. Poi però, dopo l’intervento NATO in Libia del 2011 autorizzato da un risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le fortune della R2P si bloccarono.

Durante il primo anno della “Arab Spring”, infatti, nel voler prevenire un massacro del regime libico nei confronti della popolazione insorta a Bengasi, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizzò l’intervento armato per proteggere i civili in Libia. Era la prima volta che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva invocato esplicitamente la dottrina R2P per autorizzare la comunità internazionale a condurre un intervento armato per proteggere i civili dalla violenza del proprio stato. Ma poi quella guerra “autorizzata” svelò altri fini. Le conseguenze dell’intervento militare in Libia, con un paese distrutto e poi rimasto ancora oggi in costante conflitto tra fazioni armate, ha scavato la fossa alle fortune della R2P nel dibattito dell’ONU, buttando così con l’acqua sporca della guerra contro Gheddafi, anche la neonata consapevolezza giuridica internazionale che il governo di uno stato non possa fare ai propri cittadini quello che gli pare senza rischiare di incorrere nella reazione della comunità internazionale.
Nel 2018, l’Assemblea Generale ha tenuto un dibattito ufficiale sulla R2P (il secondo dal 2009!) e il Segretario Generale Antonio Guterres intuì quanto fosse dura tentare di “resuscitarla”. Dopo aver detto che “tale discussione è oggi più critica che mai mentre ci sforziamo insieme di proteggere le persone dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l’umanità…”, Guterres mostrò di aver ben chiaro la diffidenza, dopo la Libia, sulla R2P dei paesi membri dell’ONU:

“Eppure oggi c’è ancora il timore che il principio possa essere utilizzato per intraprendere azioni collettive per scopi diversi da quelli concordati nell’esito del vertice mondiale. Ci sono anche preoccupazioni circa possibili doppi standard e l’uso selettivo del principio in passato. Ecco perché scambi aperti e franchi come questo sono necessari per dissipare malintesi e diffidenza. Dobbiamo forgiare la comprensione reciproca e stabilire un sostegno più forte per la responsabilità di proteggere come strumento chiave di protezione e prevenzione. Ricordiamo che la responsabilità primaria della protezione delle persone spetta agli Stati. Come afferma il documento finale del Vertice mondiale, e cito: “Ogni singolo Stato ha la responsabilità di proteggere le proprie popolazioni… Questa responsabilità comporta la prevenzione di tali crimini, compreso il loro incitamento… Accettiamo tale responsabilità e agiremo in conformità con esso”.
Intanto oggi accade che il governo dell’Iran, paese membro dell’ONU, esegua condanne a morte uccidendo suoi cittadini ritenendoli colpevoli di un crimine che per l’ONU è invece un diritto umano: il poter protestare contro misure repressive del governo nei confronti delle donne iraniane.
Martedì, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha accusato il governo dell’ Iran di “uccisione di manifestanti sponsorizzata dallo Stato”. L’accusa dell’alto commissario Onu non lascia fraintendimenti: i procedimenti penali e la pena di morte sarebbero stati utilizzati dal regime iraniano come armi per reprimere il dissenso. Sono state eseguite già la condanna a morte di quattro persone coinvolte nelle proteste a livello nazionale, scatenate dalla morte a settembre di Mahsa Amini, giovane donna che era stata arrestata dalla polizia “morale” per non indossare “correttamente” l’ hijab.

Parole forti quelle utilizzate da Türk: “L’utilizzo di procedure penali per punire le persone che esercitano i loro diritti fondamentali, come coloro che partecipano o organizzano manifestazioni, equivale a un omicidio sanzionato dallo stato”. Inoltre, il capo dei diritti umani delle Nazioni Unite ha esortato le autorità iraniane ad attuare riforme legali e politiche “per garantire il rispetto della diversità di opinione, i diritti alla libertà di espressione e di riunione e il pieno rispetto e protezione dei diritti delle donne in tutte le aree della vita”.
🇮🇷 #Iran: Criminal proceedings & death penalty are being weaponized to punish protesters & strike fear to stamp out dissent. UN Human Rights Chief @volker_turk calls on govt to respect lives & voices of its people, & stop all executions immediately: https://t.co/HReyfvyZ8R pic.twitter.com/yQGOpmm2gp
— UN Human Rights (@UNHumanRights) January 10, 2023
Da Ginevra, Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha spiegato che i manifestanti giustiziati erano stati condannati a seguito di udienze “accelerate”. “Data la quasi totale mancanza di un giusto processo, e dato l’uso della tortura e dei maltrattamenti, stiamo dicendo che queste non sono solo esecuzioni, ma sono uccisioni autorizzate dallo Stato, sono privazioni arbitrarie della vita da parte dello Stato”.
Altri due manifestanti potrebbero essere giustiziati a breve: Mohammad Boroughani, che ha 19 anni, e Mohammad Ghobadiou, 22 anni. Secondo l’OHCHR, le violazioni delle garanzie del giusto processo hanno incluso l’uso di disposizioni penali formulate in modo vago, la negazione dell’accesso a un avvocato di scelta dell’imputato e il diritto di presentare una difesa, confessioni forzate ottenute attraverso torture e maltrattamenti, mancato rispetto della presunzione di innocenza e negazione del diritto di appello.
Nella sua dichiarazione, il capo dei diritti umani dell’ONU Türk ha spiegato che le recenti condanne a morte sono state emesse a seguito di condanne per “moharebeh” (guerra contro Dio) e “efsad-e fel arz” (corruzione sulla terra). Queste accuse sono di gran lunga inferiori alla soglia richiesta dal diritto internazionale sui diritti umani prima che qualcuno possa essere messo a morte legalmente.

L’OHCHR ha citato i rapporti secondo cui la prima delle quattro esecuzioni – di Mohsen Shekari – è stata eseguita l’8 dicembre 2022. Quattro giorni dopo, Majdireza Rahanavard è stato giustiziato solo 23 giorni dopo il suo arresto, il 19 novembre. Il 7 gennaio 2023 sono stati giustiziati anche Mohammad Mehdi Karami e Mohammad Hosseini. Tutti sono morti senza che le loro famiglie ne fossero informate.
“Questo di per sé costituisce una violazione del diritto internazionale sui diritti umani”, ha affermato l’OHCHR, osservando che almeno altri 17 sono stati condannati a morte e fino a 100 altri sono stati accusati di reati capitali.
Oggi al briefing al Palazzo di Vetro abbiamo chiesto al Portavoce del Segretario Generale dell’ONU, Stephan Dujarric, quanti cittadini che protestano dovranno essere impiccati dal regime iraniano prima che Antonio Guterres invochi la R2P nei confronti dell’Iran, esortando i paesi membri ad intraprendere atti concreti contro il regime di Tehran. La risposta è stata: “Ci siamo espressi con estrema chiarezza in seguito alla morte di persone che manifestavano pacificamente. Parlato in modo estremamente chiaro come ho fatto ieri, quando viene applicata la pena di morte. La questione della responsabilità di proteggere è una questione che deve essere affrontata dagli Stati membri. Penso che siamo stati molto chiari e coerenti nelle nostre parole e nelle nostre azioni”. (Qui dal minuto 18:58)
Quindi la R2P spetterebbe solo agli stati membri invocarla? Eppure Guterres ha ancora un consigliere speciale proprio sulla “Responsibility to Protect”, l’ugandese George Okoth-Obbo, nominato nel dicembre del 2021, il terzo in quell’incarico. Su cosa lo consiglia? Da parte nostra, non abbiamo mai sentito nominare Okoth-Obbo e non ci risulta ci sia stato alcun briefing con la stampa nel 2022. Ci sarà forse nel 2023? Dalla responsabilità di proteggere non voremmo che all’ONU si sia già passati a quella di sparire…