Da qualche parte nel mondo, hanno informato le Nazioni Unite, è nata la persona che porta a 8 miliardi la popolazione del pianeta. Ciascuno festeggi o si rammarichi, guardando a numeri e analisi anticipati a luglio dal dipartimento di Affari Economici e Sociali Onu, attraverso World Population Prospects, che apriva con un interessante dato: gli esseri umani nati su Terra sono stati in totale 117 miliardi. Non siamo, quindi, che il 6,8% del totale. Eppure abbiamo spesso l’impressione di essere in troppi.
Forse perché ancora nel 1974 – meno di mezzo secolo fa – gli umani in vita eravamo la metà degli attuali, 4 miliardi. Forse perché il miliardo che ha preceduto l’attuale, il settimo, fu raggiunto soltanto un decennio fa, nel 2011. Le accelerazioni sociali pretendono tempo, per gli aggiustamenti che le società altrimenti non assorbono.
La complessità dell’attuale sfida demografica appare anche maggiore, se si pensa che la popolazione all’inizio del novecento superava di poco il miliardo e mezzo, e cinquant’anni dopo non raggiungeva 2 miliardi e mezzo. Se poi si getta lo sguardo avanti, si vede che fra qualche mese, nel 2023, la popolazione dell’India supererà quella della Cina (“il maggiore incremento assoluto di popolazione su ogni altro paese, tra il 2022 e il 2050, aggiungendo 253 milioni alla sua popolazione, sino a 1,67 miliardi”), a conferma anche dell’assoluto declino delle nascite cinesi. È realistico immaginare che i due paesi, in lite permanente per il predominio in Asia, trarranno qualche conseguenza dal reciproco mutamento di prospettiva territoriale. Il che non necessariamente favorirà la pace universale.
Alla domanda se siamo troppi e se possiamo permetterci di arrivare ai 10,4 miliardi che l’Onu prevede per gli anni ‘80 di questo secolo – picco che poi dovrebbe stabilizzarsi sino al 2100 – non è facile rispondere. Per rispondere bene, occorre anche differenziare tra regioni. Per un esempio, la regione con più vecchi resta l’Europa meridionale, con il 22% di popolazione con 65 anni e più, mentre la più giovane è l’Africa centrale dove il 45% della popolazione ha meno di 14 anni.
È accertato che il tasso di crescita della popolazione, rispetto all’apice del 1964, si sia quasi dimezzato, e stia ora viaggiando ad un tasso mai tanto basso dal 1950. Ciò consente di ragionare a bocce (quasi) ferme: la stabilizzazione di fine secolo è assicurata – dicono i demografi – dal fatto che ovunque nel mondo le famiglie tenderanno a contenere il numero dei figli. La regola dei due figli si sarebbe affermata, il che comporterebbe stabilità nel ritmo di riproduzione.
Il dato attuale racconta che la fertilità globale totale (Tfg) è di 2,3 nascite per donna, superiore al livello di Tfg necessario a garantire il rimpiazzo degli attuali 8 miliardi di umani. Può destare sorpresa apprendere che il Tfg più basso al mondo appartiene all’Asia orientale, con 1,2 a donna.
Preso atto delle previsioni, il buon senso dice che se la famiglia delle nazioni collaborasse per il bene comune, la risposta alla domanda sarebbe che Terra può reggere la sfida, sempre che nella “collaborazione” rientrino ricette come l’assenza di guerre, l’equa gestione delle risorse, il contrasto al cambiamento climatico, l’adempimento degli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per lo sviluppo. Il buon senso aggiunge che il menu esposto difficilmente sarà servito dagli stati. Basta guardarsi intorno: imperversano guerre, ingiustizie, sfruttamento. Se non si interrompe la spirale che vede dal 2014 pochissimi arricchirsi troppo e tantissimi impoverirsi troppo, la questione demografica non troverà soluzione. Il cambiamento climatico, con la pressione che esercita sulla sicurezza alimentare non potrà che peggiorare una situazione che già oggi risulta critica, ad esempio facendo ulteriormente salire l’abbandono delle campagne e l’inurbamento in miserande periferie.
World Population Prospects ha avvertito che “la crescita rapida della popolazione è insieme causa ed effetto del progresso rallentato nello sviluppo, e che gli attuali dati sulla popolazione rendono “critical” programmare azioni efficaci. Portando l’esempio dei programmi Onu per l’istruzione di bambini e ragazzi, il vicesegretario generale agli affari economici e sociali, Liu Zhenmin, ha spiegato che ampliare ulteriormente le classi scolastiche, comporterà la caduta della qualità dell’insegnamento e che, più in generale, la realizzazione dei 17 obiettivi per lo sviluppo (Sdgs) fissata dall’Onu per il 2030, in particolare in materia di salute, istruzione e parità di genere, sarà possibile solo se “ci si affretta” (hasten) ad abbassare la fertilità nei paesi che continuano ad esprimerla ad alti livelli.
Sulle previsioni di natalità e mortalità, i servizi demografici delle Nazioni Unite non potevano far mancare un cenno agli effetti del micidiale Covid-19. Le informazioni in arrivo da World Population Data Sheet, hanno messo in risalto le morti in eccesso dovute a Covid-19, quantificandole nel 12% di tutte le morti globalmente intese, e hanno al tempo stesso informato che Covid-19 non ha influenzato la curva della fertilità in modo significativo, essendosi questa contratta solo per un tempo ristretto. Nei paesi ad alto reddito, come Italia e Stati Uniti, le nascite nel 2021 hanno ripreso a salire, superando il piccolo declino del 2020. In quanto ai paesi a medio e basso reddito non si è rilevato nessun particolare impatto sulla fertilità.
In termini globali i dati riassuntivi ufficiali indicano a quasi 15 milioni le morti in eccesso negli anni 2020-201, automaticamente attribuite a Covid-19. La regione con più alta mortalità è risultata, nel periodo, l’Europa orientale: con 300 morti su 100.000: vi si è avuta la più alta percentuale di eccesso medio annuo di morti nel periodo di riferimento. L’aspettativa globale di vita alla nascita è nel frattempo scesa a 75 anni per le donne e a 70 per gli uomini: resta più alta quella negli Stati Uniti, benché dal 2019 al 2021 l’aspettativa di vita sia scesa da 78 a 76 anni.