Tra pandemia e crisi in Afghanistan, di “ambiente” non sembra interessare più a nessuno (anche la piccola – anche se ormai maggiorenne – Greta non riempie più le prime pagine dei giornali).
Eppure i problemi non sono stati risolti. Anzi, pare proprio che la situazione stia peggiorando. Gli incendi divampati in tutti continenti hanno causato un aumento considerevole dei livelli di CO2. Il consumo di plastica continua ad aumentare. E anche la biodiversità sembra essere diventata un problema serio.
Cosa si intende per “biodiversità”? Il termine biodiversità venne coniato nel 1988 dall’entomologo americano Edward O. Wilson. Questo termine esprime il numero, la varietà e la variabilità degli organismi viventi e come questi varino da un ambiente ad un altro nel corso del tempo. Le sue variazioni sono una misura indiretta di come viene gestita la “ricchezza” di vita sulla Terra. Un sistema molto complesso i cui componenti interagiscono tra loro. Nel Mar Mediterraneo (uno dei 33 hotspot di biodiversità a livello mondiale) si contano oltre 58.000 specie animali (di cui circa 55.000 di invertebrati, 1812 di Protozoi e 1265 di vertebrati) ai quali si aggiungono oltre 6.700 specie di piante vascolari, 851 tipologie di muschi e 279 piante epatiche (oltre a 20.000 specie di funghi, macromiceti e mixomiceti, funghi visibili a occhio nudo). In Italia, su una superficie pari a circa 1/30 di tutto il continente europeo, sono presenti oltre il 30% delle specie animali e quasi il 50% di quelle vegetali.
Proprio per salvaguardare questo patrimonio a livello globale, il 5 Giugno 1992, a Rio de Janeiro, venne firmata la Convenzione sulla Diversità Biologica. Tre gli obiettivi principali: la conservazione della diversità biologica; l’uso sostenibile dei componenti della diversità biologica; e la giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche. A sottoscrivere e ratificare questo documento 192 Paesi (più l’Unione Europea, a Febbraio 2011).

Oggi questo equilibrio pare essere in grave pericolo. Tutti gli impegni presi dai governi negli ultimi decenni sembrano essere cartastraccia. Anche il piano approvato dai paesi dell’UE nel 2010 per tutelare e salvaguardare la biodiversità, organizzato in 4 Misure e 10 Obiettivi, pare non essere servito a molto.
É questo che emerge dai lavori della Convenzione sulla Diversità Biologica, CBD. Iniziati il 23 Agosto scorso, si protrarranno fino al 3 Settembre. E mostrano un quadro preoccupante. A livello globale e a livello locale.
Secondo il Global Biodiversity Outlook (GBO), la pubblicazione di punta della Convenzione sulla diversità biologica (CBD), l’umanità è a un bivio. Il rapporto riassume gli ultimi dati sullo stato e le tendenze della biodiversità e trae conclusioni rilevanti per il futuro della Convenzione. Partendo da una serie di indicatori, studi e analisi (come la valutazione globale IPBES sulla biodiversità e i servizi ecosistemici), nonché sui rapporti nazionali, GBO-5 fornisce una sintesi globale dei progressi verso gli obiettivi di biodiversità di Aichi.
Quello che emerge è che ciascuna delle condizioni necessarie per realizzare la Visione per la biodiversità del 2050, oggi, richiede un cambiamento radicale dal “business as usual”. Otto i settori analizzati: Terra e foreste, acqua dolce, pesca e oceani, agricoltura sostenibile, sistemi alimentari, città e infrastrutture, azioni per il clima, e salute.

Per raggiungere questi risultati sarebbero necessarie scelte politiche e geopolitiche importanti e cambiamenti radicali. E programmi radicalmente diversi da quelli adottati finora. Azioni diverse, ad esempio, da quelle adottate dal governo statunitense di scavare anche in Alaska alla ricerca di petrolio. O quelle del governo brasiliano che a pochi giorni dalla pubblicazione del VI rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), ha diffuso i dettagli del Programa para Uso Sustentável do Carvão Mineral Nacional che prevederebbe la promozione del settore del carbone(!). O quelle in atto nel Mar Mediterraneo dove si riparla di trivellazioni, incuranti dell’allarme lanciato poche settimane fa da Legambiente nel rapporto-Biodiversita-2021 che citando la “Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030” dice che le principali minacce sono legate al cambiamento di uso del suolo. Anche il Quarto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, predisposto tra Novembre 2020 e Marzo 2021, sottolinea come sia “urgente e necessario un radicale cambiamento culturale e sistemico, quel cambiamento che sino a oggi la nostra civiltà non è riuscita ad attuare: una transizione verso una società e un sistema economico imperniati sul rispetto della natura”. Tutto inutile. Basti pensare che, da un recente rapporto, emerge che dei quasi 40mila siti italiani che necessitano di bonifiche solo per 679 (4,2%) gli interventi sono stati conclusi (e si è in attesa di certificazione).
Al vertice di Kunming si lavora ad una bozza di accordo quadro per realizzare “Un mondo che vive in armonia con la natura” entro il 2050, proteggendo almeno il 30% del pianeta, in mare e sulla terra, ripristinando le funzionalità ecologiche su almeno il 20% delle aree entro il 2030 (a Luglio è stata diffusa la prima bozza dal Segretariato della Convention on Biological Diversity).

Ma potrebbe non essere sufficiente. “Se vogliamo garantire il futuro della vita sul nostro pianeta, il progetto di piano delle Nazioni Unite per preservare e proteggere la natura deve essere modificato per mettere i diritti umani al centro”, ha dichiarato David Boyd, relatore speciale ONU sui diritti umani e l’ambiente, che ha aggiunto “lasciare i diritti umani alla periferia semplicemente non è un’opzione, perché la conservazione basata sui diritti è il percorso più efficace, efficiente ed equo per salvaguardare il pianeta”. Per questo Boyd ha esortato “gli Stati membri a porre i diritti umani al centro del nuovo Global Biodiversity Framework”. Il motivo di questo appello è chiaro: le conseguenze dei cambiamenti climatici (e della biodiversità) in atto, hanno conseguenze devastanti sulle fasce più deboli della popolazione terrestre. Secondo il rapporto “Running Dy: the impact of water scarcity on children in the Middle East and North Africa” dell’Unicef “quasi 9 bambini su 10 in Medio Oriente e Nord Africa vivono in aree a stress idrico alto o estremamente alto, il che comporta serie conseguenze per la loro salute, nutrizione, sviluppo cognitivo e mezzi di sostentamento futuri”. E in tutto il mondo, sono quasi un miliardo i bambini minacciati dai cambiamenti ambientali (e dalle conseguenze sulla biodiversità che ne derivano) 240 milioni sono fortemente esposti alle inondazioni costiere. 330 milioni alle inondazioni fluviali. 400 milioni sono fortemente esposti ai cicloni. 600 milioni alle malattie trasmesse da vari vettori e 815 milioni di bambini sono fortemente esposti all’inquinamento da piombo. 820 milioni sono fortemente esposti alle ondate di calore. 920 milioni alla scarsità d’acqua.
Di questi numeri, però, non si parla mai. Si preferisce parlare del fallimento (annunciato in Afghanistan) o degli strascichi della pandemia. E c’è anche chi si sorprende se in Africa o in alcuni paesi dell’Asia di Covid-19 si parla poco. Qui, per centinaia e centinaia di milioni di persone i problemi sono altri. Ben più gravi. E tutti legati ai cambiamenti climatici e della biodiversità.