Uno dei meriti di una democrazia (quando funziona) è di riconoscere gli errori dei popoli che governano e chiederne perdono di fronte alla storia, riparando, per quanto possibile, i danni fatti a persone e territori esterni, dai regimi che l’hanno preceduta. Non si tratta di un processo facile. Gli australiani di origini anglosassoni hanno appena riconosciuto i crimini contro i nativi, ma l’Italia non ha ancora assunto piena responsabilità della ferocia razzista di suoi graduati in Africa: la macchia sui valori repubblicani arrecata da chi nel 1949 rigettò la richiesta etiopica di estradare Rodolfo Graziani nonostante la posizione della Commissione ONU sui crimini di guerra per l’inserimento del viceré nell’elenco dei criminali da sottoporre a giudizio, chissà se e quando sarà lavata. Il Giappone evita di fare ammenda sulla vergognosa tratta di bambine e giovani donne del sud est asiatico, coreane in particolare, messe a disposizione della sua soldataglia ribattezzandole col nome di “comfort women”, anticipazione del lessico berlusconiano delle “cene galanti”.
Ci sono poi le democrature che, tutte, continuano a negare le responsabilità dei loro popoli verso minoranze: così i Turchi verso gli Armeni, i brasiliani verso gli indios, i russi verso gli ucraini e altre minoranze nei secoli dell’impero come nei decenni dell’Unione dei soviet. In quanto alle dittature, il negazionismo è la regola: basti guardare i comportamenti cinesi verso tibetani e uiguri per averne la prova.
La Germania riconosce le colpe verso la Namibia, in particolare le etnie Herero e Nama che, secondo molti storici, hanno sofferto il primo genocidio del XX secolo: all’epoca dei fatti, quinquennio 1904-1909, il territorio era chiamato Africa sudoccidentale tedesca.
Berlino adotta la posizione dopo sei anni di colloqui e polemiche con la diplomazia di Windhoek, al termine dei quali riconosce la colpa e appresta il rimedio, seppure con un distinguo non di poco conto: non riparerà un crimine né risarcirà gli eredi delle vittime, ma assisterà lo sviluppo sociale ed economico delle popolazioni colpite dalle efferatezze della Germania guglielmina. Il danno è stato quantificato in euro 1,1 miliardi, circa un decimo del pil annuo generato dai 2 milioni e mezzo di abitanti del paese africano, da versarsi in trent’anni. Si noti che da tempo la Repubblica Federale ha collocato la Namibia al primo posto in termini finanziari pro capite, nelle sue politiche di aiuto ai paesi in sviluppo.
A prescindere dalla congruità dell’importo stanziato, e dalle modalità di erogazione, a imporsi all’attenzione, sotto il profilo politico ed etico e come precedente giuridico, sta la natura del deal raggiunto tra le parti. Il ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, venerdì 28 maggio, ha precisato che solo “dalla prospettiva odierna” il comportamento del Reich guglielmino costituisce “un genocidio”, aggiungendo: “Alla luce della responsabilità storica e morale della Germania, chiederemo perdono alla Namibia e ai discendenti delle vittime”.
Tutto bene, eccetto quell’”odierno”, evidenziato in corsivo da chi scrive. Alle origini dell’aggettivo c’è il fatto che la dottrina giuridica e diplomatica tedesca sostiene da sempre che la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (9 dicembre 1948, risoluzione 260 A (III) dell’ONU) non possa essere applicata retroattivamente, posizione che se serve a tutelare le finanze tedesche dalle riparazioni chieste da stati e popolazioni che hanno sperimentato l’occupazione germanica nella Seconda guerra mondiale (la Grecia sta chiedendo da un pezzo 289 miliardi di dollari per danni), non risolve il problema in sede politica ed etica.
Davvero un genocidio può essere considerato secondo prospettive mutanti a seconda dell’epoca storica? Non è forse norma del sempiterno diritto naturale, riguardando la specie umana in quanto tale, non in quanto parte di un concetto giuridico positivo; questo sì dipendente dal mutare della prospettiva storica? Sfruttare, tormentare, distruggere popolazioni non è reato che possa andare in prescrizione.
L’affermazione è meglio compresa, se corroborata dalla narrazione di cosa effettivamente accadde nel possedimento germanico nel citato quinquennio.
La stagione tedesca delle colonie, iniziò nel 1884, a poco più di un decennio dalla formazione del Reich di Bismarck e Guglielmo. In questo la Germania si comportò come l’Italia: appena realizzato l’obiettivo nazionale, si mise in giro per conquiste, pescando nei territori che nazioni di più antica esistenza e bellicosità – Spagna, Olanda, Britannia, Francia – avevano dismesso o evitato. I possedimenti germanici nacquero in Cina, nella regione del Pacifico e, appunto, in Africa. Crudeltà e pregiudizi razziali condirono quelle azioni di conquista, e in Namibia quella tabe della storia europea si espresse con particolare intensità.
Primo commissario imperiale fu Heinrich Göring, degno padre di Hermann, il compare e delfino di Adolf Hitler. Nel 1904 l’impero avviò un vero e proprio sterminio di Herero e Nama, colpevoli di essersi finalmente ribellati alla lunga serie di rapine, crudeltà, manifestazioni di razzismo, stupri che da anni sopportavano senza poter reagire. A gennaio gli Herero avevano ucciso (guardandosi dall’infierire su donne e bambini) 123 tra soldati, commercianti e coloni. L’imperatore da Berlino mosse in zona il generale Lothar von Trotha forte di una divisione di 10mila effettivi. Il 2 ottobre il proclama del generale, presto beatificato come eroe (!) dalla stampa di regime, dispose l’abbandono dei loro territori da parte degli Herero, minacciando di passare per le armi chiunque avesse deciso di non conformarsi alla disposizione, donne e bambini inclusi. Il futuro eroe non mancò di definirsi, per iscritto, “Io, il grande generale delle truppe tedesche”.
Il massacro fu voluto. Repentinamente sparirono 70mila tra uomini donne e bambini, o almeno questa è la cifra stimata, come effetto dei colpi dell’artiglieria, della fame dei fuggitivi nel deserto Omaheke, delle condizioni miserande nei Konzentrationlager, i campi di concentramento allestiti dall’ “eroico” graduato.
La campagna di repressione fu finanziata dal denaro di Deutsche Bank. Potrebbe essere un’idea pretendere che la banca contribuisca alla sutura di una ferita che, al contrario di quanto afferma il ministro Maas, non è giustificabile neppure nel contesto storico nel quale si espresse, trattandosi di violazione di diritti inalienabili degli esseri umani, primo dei quali è la vita, con l’aggravante dell’aver infierito su donne e bambini, e di non aver rispettato il principio di proporzionalità nella rappresaglia per i 123 tedeschi assassinati dagli insorti.