Il 12 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Lavoro Minorile. In tutto il mondo – anche nei paesi sviluppati – bambini e adolescenti sono regolarmente impegnati in varie forme di lavoro, a volte retribuite, altre volte non retribuite, ma sempre pericolose per la loro salute e il loro sviluppo fisico, sociale e psicologico.
La sottomisura 8.7 degli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs) spera di riuscire ad eliminare qualsiasi forma di lavoro minorile entro il 2025. Un obiettivo che quasi certamente non verrà raggiunto. É vero che il numero di bambini impegnati in una qualche forma di lavoro diminuisce anno dopo anno (erano 246 milioni nel 2000), ma il trend è troppo basso e, soprattutto, sta rallentando. Un risultato che non sorprende dato che anche molti paesi sviluppati (Italia inclusa) considerano assolutamente legale una qualche forma di lavoro minorile. In Italia, ad esempio, a prevedere il lavoro minorile è addirittura la Costituzione che riconosce e garantisce ai minori che lavorano speciali tutele e garanzie (alcune delle quali, stranamente, ridotte nel 2016, come l’obbligo di numerose certificazioni sanitarie, tra le quali anche la visita medica per l’idoneità lavorativa psicofisica dei minori, apprendisti e non, effettuate dai medici del servizio sanitario nazionale).
A questo si aggiunge la continua domanda da parte della clientela internazionale di prodotti nei quali sono coinvolti lavori svolti da minori – si pensi, ad esempio, alla domanda di cellulari le cui batterie al litio sono realizzate utilizzando il coltan, un minerale estratto principalmente dalle miniere del Congo dove a lavorare sono quasi sempre minori, molte volte ancora bambini. Una forma di “responsabilità a distanza” che rende difficile se non impossibile raggiungere l’obiettivo. E a poco serviranno gli sforzi delle Nazioni Unite che hanno dichiarato il 2021 Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile.
La pandemia ancora in corso ha ulteriormente peggiorato la situazione: a confermarlo il documento congiunto ILO-UNICEF sull’impatto di COVID-19 sul lavoro minorile, pubblicato oggi, e che esamina alcuni dei principali canali attraverso i quali è probabile che la pandemia abbia influenzato (negativamente) i progressi verso l’eradicazione del lavoro minorile.
Alcuni dati erano già stati inseriti nel report presentato solo dall’ILO pochi giorni fa.
Secondo l’ILO, sono 218 milioni i minori coinvolti in una qualche forma di lavoro, 152 milioni svolgono lavori remunerati e 73 milioni sono impegnati in lavori pericolosi per la loro salute. Quasi un bambino su dieci, in tutto il mondo, è costretto a svolgere una qualche forma di lavoro. Ma nei paesi meno sviluppati, questa proporzione sale a più di un bambino su quattro (dai 5 ai 17 anni), spesso costretto a svolgere lavori dannosi per la sua salute e il suo sviluppo.
I lavori in cui sono impegnati i minori sono prima di tutto l’agricoltura (71%) – che comprende la pesca, la silvicoltura, l’allevamento e l’acquacoltura; poi i servizi (17%); e infine il settore industriale, compreso quello minerario (12%). Quasi la metà (48%) dei minori costretti a lavorare ha un’età compresa tra 5 e 11 anni; il 28% tra 12 e 14 anni; il 24% ha tra 15 e 17 anni. Dei 152 milioni di bambini che lavorano, 88 milioni sono maschi e 64 milioni sono femmine. Ma questi numeri potrebbero essere sottostimati: sono molti i minori che lavorano nell’azienda di famiglia senza alcuna remunerazione.
La percentuale di bambini impegnati in una qualche forma di lavoro è più alta nei paesi a basso reddito. L’Africa è la regione con il maggior numero di lavoratori minori sia in percentuale sia come numeri assoluti (72 milioni). Subito dopo l’Asia e i paesi del Pacifico con 62 milioni di minori impiegati in una qualche forma di lavoro. Insieme Africa, Asia e Pacifico rappresentano i nove decimi dei casi di lavoro minorile nel mondo (viene da pensare a tutti i prodotti realizzati in questi paesi che poi giungono sui mercati occidentali). I rimanenti casi di lavoratori minori sono divisi tra le Americhe (11 milioni), l’Europa e l’Asia centrale (6 milioni) e gli Stati arabi (1 milione). In termini di incidenza, il 5% dei casi di lavoro minorile sono rilevati nelle Americhe, il 4% in Europa e in Asia centrale e il 3% in Medio Oriente.
Se da un lato è pur vero che tutte le forme di lavoro minorile sono dannose per un minore (si pensi al diritto allo studio o al diritto al gioco previsti dalla CRC e spesso impossibili per gli adolescenti impegnati a lavorare), dall’altro, i lavori svolti dai minori hanno effetti immediati sulla loro salute in circa la metà dei casi. Attività pericolose svolte prevalentemente da adolescenti tra i 15-17 anni. Ma non mancano i casi (19 milioni!!) di lavori svolti da bambini di età inferiore ai 12 anni.
Dal punto di vista di genere i ragazzi sembrano affrontare un rischio maggiore di lavoro minorile rispetto alle ragazze: il 58% di tutti i bambini nel lavoro minorile e il 62% di tutti i bambini che svolgono un lavoro pericoloso sono ragazzi. Ancora una volta si tratta di una dato sottostimato: non tiene conto di alcuni lavori e in particolare nel lavoro minorile domestico.
Anche i bambini soldato rientrano tra i lavori minorili: in molti casi è proprio il fatto di essere in qualche modo remunerati a convincere adolescenti senza possibilità di futuro ad accettare l’invito/obbligo ad arruolarsi. Eppure secondo quanto riportato dalla CRC che è stata ratificata da 195 paesi delle NU, nessun minorenne dovrebbe essere permesso di fare il lavoro di soldato. Ma di loro non parla nessuno. Neanche quando, come è avvenuto di recente, esistono prove del loro impiego anche nei conflitti (come quello in Libia) a due passi da casa nostra.
Vicini geograficamente, ma lontani abbastanza per far finta di non vederli. Per accorgersi che sono centinaia di milioni che devono rinunciare ……e tutti gli altri bambini impegnati in lavori massacranti che nessun adulto vuole fare.