Distratti dall’emergenza legata alla pandemia di Covid-19, dei “migranti” sembra non importare a nessuno. Nemmeno quando, come nel caso avvenuto pochi giorni fa, si è arrivati ad un passo dallo scontro diplomatico tra il governo italiano e quello maltese: solo grazie ad un’inchiesta giornalistica si è venuto a sapere che le autorità maltesi si sarebbero rifiutate di salvare i migranti giunti a poche centinaia di metri dalle coste maltesi, limitandosi a far risalire a bordo del gommone quelli che si erano gettati in mare per raggiungere l’imbarcazione della guardia costiera, per poi indirizzarli verso le acque territoriali italiane. La questione è finita al Parlamento italiano dove sono state presentate due interrogazioni parlamentari. A tal proposito, il ministro Lamorgese ha confermato di avere interessato Bruxelles e di essersi lamentata con il suo omologo a La Valletta dicendo che “spesso si è sottratto agli obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali”.
Come ha ricordato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres alla presentazione del rapporto “COVID-19 and People on the Move”, circa “un terzo della popolazione migrante al mondo vive nei 10 paesi dove è maggiore il rischio legato al COVID-19”.
Per questi uomini, queste donne, questi bambini i problemi da affrontare, secondo Guterres, son almeno tre insieme. Il primo è la crisi sanitaria: le condizioni in cui milioni e milioni di persone sono stipate in centri di accoglienza dove il distanziamento sociale è un lusso impossibile, le principali misure di prevenzione sono una mera illusione, e perfino l’acqua, i servizi igienico-sanitari e la nutrizione sono un problema.
Il secondo aspetto da tenere presente è che molte di queste persone fugge da paesi in cui è in atto una grave crisi economica e arriva in paesi dove spesso le uniche prospettive sono legate all’economia “informale”, al sommerso. Un modo di vivere che non solo non garantisce a loro e alle loro famiglie alcun futuro, ma che li lascia privi anche di accessi a forme di protezione sociale e sanitaria.
Da ultimo, ma non meno importante, il timore del diffondersi del virus ha spinto molti governi a chiudere le frontiere: sono oltre 150 i paesi che hanno imposto restrizioni alla circolazione per contenere la diffusione del virus. A volte (in ben 99 paesi) senza tenere in alcun conto le richieste di asilo di persone in fuga da persecuzioni.
Secondo Guterres, la paura del Covid-19 ha fatto riemergere “una vertiginosa xenofobia, razzismo e stigmatizzazione” dove a pagare il prezzo maggiore spesso sono le fasce più deboli: donne e ragazze, spesso vittime di violenze di genere, abusi e sfruttamento, e i minori, incapaci di difendersi.
Tutto questo trova riscontro in ciò che sta avvenendo non solo in Italia, ma in molti dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e in quelli da cui provengono molti dei migranti che cercano di entrare in Europa.
In Grecia, coma ha ricordato Filippo Grandi, l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati: “I centri sulle isole da anni traboccano di profughi e migranti. Nessuna regola igienica o di distanza può essere rispettata, l’acqua è scarsa”. A Lesbo e a Mykonos la situazione era e rimane critica: pochi giorni fa, nel campo di Moria, un bambino di sei anni ha perso la vita a causa dell’incendio scoppiato nel campo profughi per cause ancora da accertare. Per ridurre l’affollamento particolarmente rischioso in questo periodo di epidemia, il governo di Atene ha promesso (per l’ennesima volta) di trasferire altrove almeno parte dei migranti e dei rifugiati che vivono in condizioni disumane (e con rischi di contagio oltre l’inverosimile), ma fino ad ora si è visto ben poco. Anzi si teme che dall’1 giugno possano sorgere nuovi problemi dovuti alla scadenza dell’ “Emergency Support To Integration & Accommodation” (ESTIA), il programma di sostegno di emergenza all’integrazione e all’alloggio cofinanziato dal Fondo Asilo, migrazione e integrazione dell’Unione Europea.
Lanciato nel 2007, questo progetto aveva lo scopo di aiutare i rifugiati e le loro famiglie ad affittare alloggi urbani e fornire loro assistenza in contanti. Un’idea che voleva essere una soluzione innovativa rispetto ai sistemi tradizionali di accoglienza nei campi profughi. Giunto al termine si teme che oltre 8000 rifugiati possano finire per le strade di Atena, senza alcuna assistenza e senza poter contare neanche dei servizi offerti ai migranti nei campi di accoglienza. Un problema che Boris Cheshirkov, portavoce dell’UNHCR ad Atene, ha definito preoccupante: “I rifugiati dovranno abbandonare questa forma di assistenza senza un accesso effettivo ai servizi sociali greci”, ha affermato. “In teoria, hanno diritto all’assistenza, ma in realtà per coloro che non parlano la lingua, navigare nella burocrazia greca può essere estremamente difficile”.

Non è migliore la situazione dall’altro lato del Mediterraneo, in Spagna. É qui che viene prodotta buona parte della frutta e dei prodotti agricoli venduti nei supermercati di tutta Europa (circa la metà dei prodotti è destinata all’esportazione e il 93% è destinato al mercato dell’UE). Questo settore sopravvive grazie alla manodopera a basso costo fornita da lavoratori extracomunitari e migranti spesso privi di documenti, costretti a lavorare e vivere in condizioni terribili. Il diffondersi della pandemia di Covid-19 preoccupa non poco sia i migranti che i loro sfruttatori. Molti lavoratori hanno dichiarato di non essere abbastanza protetti contro il rischio di contagio sia negli insediamenti dove sono alloggiati che durante le interminabili ore di lavoro fianco a fianco gli uni con gli altri. Duro il giudizio di Philip Alston, relatore delle Nazioni Unite, dopo la sua visita in Spagna: “A Huelva, ho incontrato lavoratori che vivono in un insediamento di migranti in condizioni che rivaleggiano con il peggio che abbia mai visto in tutto il mondo. Sono a chilometri di distanza dall’acqua e vivono senza elettricità o servizi igienici adeguati”. Sul fronte opposto ci sono gli agricoltori divisi tra la paura di perdere i raccolti e la diffusione della pandemia.
L’OMS ha ripetuto più volte che è importante rispondere ai bisogni di rifugiati e migranti per far fronte alla pandemia di Covid-19. Rifugiati e migranti, in particolare quelli che sono sfollati e / o vivono in campi e ambienti simili, devono affrontare sfide e vulnerabilità specifiche che devono essere prese in considerazione al momento di pianificare operazioni di prontezza e risposta. “Se durante questa pandemia lasciamo i più vulnerabili, falliamo non solo loro, ma tutti noi. COVID-19 ci sta sfidando come comunità e dobbiamo rispondere come una sola”, ha dichiarato Santino Severoni, consigliere speciale per la salute e le migrazioni e direttore ad interim della divisione dei sistemi sanitari e della sanità pubblica presso l’OMS / Europa.
Il rapporto dell’OMS dal titolo “Guida ad interim: aumentare la prontezza dell’epidemia di COVID-19 e le operazioni di risposta in situazioni umanitarie, compresi campi e contesti simili a campi”, realizzato con la Federazione internazionale delle società della Croce rossa, la Mezzaluna rossa (IFRC), l’International Organization for Migration (IOM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), sottolinea la necessità di “considerare i rischi per la salute associati a movimento, spostamento, sovraffollamento, cattivo stato nutrizionale e sanitario, stress fisico e mentale e privazione dovuti alla mancanza di alloggi, cibo e acqua pulita tra rifugiati e migranti”.
In Europa, ovviamente. Ma ancora di più in Africa, nei paesi da dove provengono la maggior parte dei migranti. Qui il numero relativamente basso di casi di corona virus nasconde una realtà di cui pochi parlano. A cominciare dai (pochi) test effettuati. Inoltre, dal punto di vista demografico, esistono enormi differenze tra Europa e Africa: l’età media è molto più bassa, quasi la metà della popolazione africana è sotto i 14 anni e sono pochi gli anziani (i soggetti più a rischio). Per contro, in molti paesi africani, la popolazione dove fare i conti non solo con il corona virus ma con altre epidemie e malattie che causano ogni anno un numero di morti spaventoso. Spesso, in mancanza di test specifici, non è facile distinguere i sintomi e, di conseguenza, isolare i casi e adottare terapie idonee. E ancora meno fare statistiche attendibili.
A tutto questo, negli ultimi mesi, si sono aggiunte due ondate di invasioni di locuste (la seconda, solo poche settimane fa, molto peggiore della prima) che hanno devastato tutto e reso invivibili ampie zone un tempo fertili dell’Africa centrale.
Ma non basta. In Africa, il Covid-19 e le misure per fronteggiarlo sono divenuti argomenti di dibattito politico: nel 2020, in diversi paesi africani sono previste elezioni politiche (e in molti sono in atto conflitti: Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Etiopia, Niger e Somalia). In Kenya ad esempio, sono stati vietati gli assembramenti di persone per motivi politici. In Malawi, al contrario, i partiti hanno preferito rischiare e organizzare enormi raduni).
Solo una minima parte dei migranti africani raggiunge il Mediterraneo. La maggior parte resta in Africa in campi non sempre autorizzati e assistiti che, a volte arrivano, ad ospitare centinaia di migliaia di migranti. Qui, molte volte i consigli degli esperti per ridurre il rischio di contrarre il virus appaiono irrealizzabili. Come quello di lavarsi frequentemente le mani: in Kenya, secondo il Kenya Integrated Household Budget Survey (BASIC REPORT Kenya Integrated Household Budget Survey) pochi hanno la possibilità di farlo: quasi l’80% delle famiglie (e non solo i migranti) non ha dispone di servizi per lavarsi le mani dentro o vicino al bagno. Lo stesso in Uganda, il paese che ospita oltre 1,4 milioni di persone in fuga da paesi come Sud Sudan o Repubblica Democratica del Congo. Uomini, donne e bambini accalcati in campi dove mancano alimenti e generi di prima necessità e dove, recentemente, sono stati registrati casi di colera.
Per consentire il “frequente lavaggio delle mani con acqua e sapone” e far fronte al contagio da Covid-19, ai rifugiati è stata raddoppiata la quota di sapone prevista (250 gr/mese). Peccato che dove c’è il sapone manca l’acqua: molto limitata e con lunghe code per accedere ai punti di rifornimento che non fanno che aumentare i rischi di contagio. Tra le misure adottate a Marzo dal presidente Yoweri Museveni il divieto di uscire da questi centri, anche per breve tempo (piccoli scambi o raccogliere legna per cucinare). Ma in molti di questi campi manca tutto. A Bidi Bidi, il più grande centro “informale” di rifugiati in Africa, vivono oltre 230mila rifugiati: da tempo aspettano di ricevere prodotti per l’igiene, disinfettanti e altro. E le risorse delle Nazioni Unite potrebbero non bastare più per far fronte alla pandemia: UNHCR Uganda sta ancora aspettando risposta alla richiesta di ulteriori finanziamenti dalla sede centrale di Ginevra. Secondo il rapporto appena presentato dall’ONU, oltre un terzo dei bambini e adolescenti (37%) in “mobilità nel Corno d’Africa non h accesso a servizi sanitari di base”. E per donne, ragazze, anziani e persone con disabilità la situazione è ancora più grave.
In Africa, sono molti quelli in attesa di conoscere il loro futuro dopo il Covid-19: se moriranno di fame dove sono nati o per una delle tante epidemie presenti nel continente (dal colera alla malaria al virus Ebola) o se emigrare, magari in fuga da una delle tante guerre tribali, correndo il rischio di finire in una prigione libica o di restare appesi al filo spinato di cui sono fitte le barriere africane al confine con la Spagna oppure di scomparire nel Mar Mediterraneo cadendo in mare da uno dei fatiscenti barconi diretti verso Malta o verso l’Italia. O di riuscire a raggiungere le coste dell’Europa sperando di non essere contagiati dal corona virus. E tutto questo nella più totale indifferenza di chi è troppo impegnato a contare i propri morti e i propri contagiati per pensare ai migranti…
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