Non inizia sotto i migliori auspici la COP25, la conferenza ONU sul clima che si terrà fino al 13 dicembre, pensata per controllare l’adempimento degli impegni sanciti dagli Accordi di Parigi del 2015 e, possibilmente, per rafforzarli. Innanzitutto, perché le recenti proteste che nelle ultime settimane hanno sconvolto il Cile, che della COP di quest’anno ha la Presidenza, hanno costretto gli organizzatori a trovare in fretta e furia una nuova location, individuata a Madrid. Secondo, perché la decisione degli USA di Donald Trump di ritirarsi dagli Accordi di Parigi è stata, a inizio novembre, ufficialmente notificata alle Nazioni Unite, in base alla procedura prevista dagli Accordi stessi. L’uscita avverrà il 4 novembre 2020, all’indomani delle elezioni presidenziali che potrebbero garantire all’attuale Commander-in-Chief un secondo mandato. Non che sia stata una novità: l’intenzione di Trump di stracciare l’eredità obamiana anche sul clima era nota almeno dal giugno 2017, quando il Presidente dell’“America First” aveva dichiarato che l’accordo di Parigi “azzoppa gli Stati Uniti e favorisce gli altri Paesi”. Eppure, non si può negare che l’addio del secondo responsabile al mondo, dopo la Cina, di emissioni di gas serra sia un duro colpo per la tenuta stessa dell’azione globale sul clima, anche perché sarà più difficile convincere Pechino, Nuova Delhi e gli altri Paesi più inquinanti al mondo a mantenere e migliorare gli impegni presi.
A tutto ciò si aggiungano le recenti dichiarazioni del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che, in occasione di una recente visita nella tormentata regione dell’Amazzonia, ha definito le “politiche ambientali” un ostacolo allo “sviluppo del Brasile”. E intanto, i dati dicono che tra agosto del 2018 e luglio del 2019, a causa del disboscamento e degli incendi, sono andati distrutti circa 10mila chilometri quadrati di foresta, il 29,5% in più rispetto all’anno precedente.
Se è vero, dunque, che la presidenza cilena ha definito la conferenza di quest’anno la COP “dell’ambizione”, è più che altro il senso di urgenza a fare da sfondo all’appuntamento. E se alla conferenza stampa introduttiva il Segretario Generale António Guterres ha voluto mandare “un messaggio di speranza, non di disperazione”, non ha nascosto che “il punto di non ritorno non è più al di là dell’orizzonte. È ben in vista e sta sfrecciando verso di noi”. Del resto, le Nazioni Unite l’hanno detto chiaramente: anche se gli impegni sanciti a Parigi nel 2015 venissero rispettati (cosa che nella maggioranza dei casi non accade), non basterebbero comunque a realizzare l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale a 1,5°C. E se gli Stati non si impegneranno ad alzare il proprio livello di ambizione entro il 2030, anche l’obiettivo dei 2°C potrebbe rivelarsi un miraggio.
Secondo il report annuale dello UN Environment Programme (UNEP), nel 2018 le emissioni di CO2 hanno raggiunto un nuovo picco di 55,3 gigatonnellate. A questi livelli, il rispetto degli Accordi di Parigi porterebbe a un aumento delle temperature di 3,2°C entro la fine del secolo. In pratica, per restare nei limiti dell’obiettivo degli 1,5°C, è stato calcolato che le emissioni dovranno diminuire, dal 2020 al 2030, del 7,6% all’anno. Ciò significa che gli Stati dovranno quintuplicare il proprio livello di ambizione e impegno.
In questo contesto, la COP25 sarà un appuntamento cruciale, a maggior ragione perché nel 2020, alla COP26 di Glasgow, gli Stati saranno chiamati a presentare nuovi piani sul clima, auspicabilmente più ambiziosi. E per ora, la maggior parte dei Governi non sta facendo abbastanza. Ad oggi, 71 Paesi e 11 regioni, che insieme producono circa il 15% delle emissioni, hanno l’obiettivo di azzerarle entro il 2050, ma solo una piccola minoranza ha messo a punto e sottoposto strategie precise. Ciò significa, peraltro, che le nazioni responsabili del restante 85% di emissioni non hanno ancora previsto un impegno simile. E se al Summit ONU sul clima di settembre diversi piccoli Stati insulari si sono impegnati a raggiungere la decarbonizzazione entro il 2030, particolare attenzione oggi è concentrata sui Paesi del G20, che concorrono per il 78% alle emissioni globali. Di questi, solo Francia e Regno Unito hanno già approvato legislazioni in materia, mentre Italia, Germania e UE ci stanno attualmente lavorando. Non è abbastanza: un rapporto compilato dalla rete di associazioni ambientaliste “Climate Action Network”, sostenuto dalla Commissione Europea, chiarisce che ad oggi “tutti i Paesi europei stanno mancando l’obiettivo stabilito dagli Accordi di Parigi” di potenziare la loro azione per il clima.
Quanto agli Stati Uniti, al netto della politica decisa da Trump, è però vero che sei Stati e territori hanno approvato leggi che li impegnano a passare al 100% di energia pulita entro il 2045-2050. Inoltre, secondo l’iniziativa America’s Pledge, gli Stati, le città e le attività economiche che restano impegnati a rispettare gli Accordi di Parigi costituiscono poco meno del 70% del prodotto interno lordo e circa i due terzi della popolazione totale. Ma senza un’armonizzazione tra le realtà locali e il Governo federale, lo sforzo di stimolare un investimento su larga scala nelle energie pulite e nell’abbandono dei combustibili fossili sarà molto meno efficace e richiederà molto più tempo.
Tra le priorità della COP25, ci sarà quella di stabilire regole precise per il mercato del carbonio, che ha rappresentato una delle principali lacune della precedente edizione polacca. Gli Accordi di Parigi, all’Articolo 6, indicano infatti tale mercato, che si fonda sulla commercializzazione di permessi di emissione di CO2, come uno strumento fondamentale per ridurre le emissioni di gas serra e procedere verso la decarbonizzazione, riducendone i costi. Alla COP24, tuttavia, le regole dell’Articolo 6 non sono state adottate perché le parti avevano bisogno di più tempo per comprendere le implicazioni del sistema. Altra sfida, il raggiungimento di un accordo sulla lunghezza dei periodi di implementazione degli impegni presi, e la necessità che sempre più Paesi sviluppati contribuiscano al Green Climate Fund, il fondo a favore dei Paesi in via di sviluppo per la loro azione per il clima.
Nel frattempo, i più giovani continuano a farsi sentire. “Scioperare non è una scelta che ci piace, lo facciamo perché non vediamo altre opzioni”, ha scritto Greta Thunberg, insieme alle attiviste per il clima Luisa Neubauer e Angela Valenzuela, in un editoriale pubblicato venerdì su Project Syndicate. “Abbiamo visto svolgersi una serie di conferenze sul clima delle Nazioni Unite. Innumerevoli trattative hanno prodotto impegni molto ambizioni, ma che alla fine si sono rivelati vuoti, da parte dei Governi del mondo, gli stessi Governi che consentono alle compagnie di combustibili fossili di trivellare per ottenere sempre più petrolio e gas e bruciare il nostro futuro per il loro profitto”. Secondo la mappa fornita da FridaysForFuture, più di 2000 scioperi e manifestazioni si sono tenuti in tutto il mondo venerdì scorso, a pochi giorni dall’inizio della COP25. Era anche il Black Friday, e in molti casi i manifestanti hanno protestato contro “l’impatto ambientale del consumismo”. Nuovi scioperi sono previsti anche il prossimo venerdì in varie città del mondo, tra cui Santiago del Cile, Madrid, Stoccolma e New York. Occhi puntati sulla COP25: “Qualcuno pensa che la conferenza di Madrid non sia molto importante, perché le decisioni fondamentali verranno prese alla COP26 di Glasgow del prossimo anno. Non siamo d’accordo”, ha chiarito Greta nel suo editoriale. “Come afferma chiaramente la scienza, non abbiamo un solo giorno da perdere”. La promessa dei più giovani, insomma, è quella di continuare a farsi sentire: “Abbiamo capito che, se noi non ci facciamo avanti, non lo farà nessuno. Continueremo a scioperare, protestare e a promuovere altre iniziative”. Leader mondiali avvisati.